sabato 10 gennaio 2009

Giorgio Celli per Adriano Spatola


Una delle più importanti scoperte neurologiche della secon­da metà del nostro secolo è stata, probabilmente, quella che ha messo a fuoco una diversa specializzazione dei due emisferi cerebrali dell'uomo. Semplificando all'estremo il discorso, sembra che l'emisfero di destra, che comanda l'occhio e la mano a sinistra, sia delegato alla percezione delle forme, e alla gestione, per dir così, dell'emozione e del sogno, mentre l'emisfero dì sinistra, che si occupa dell'occhio e della mano a destra, avrebbe il compito di lavorare sul linguaggio, e di mirare alla logica e alla ragione. Naturalmente, non sarà mai ripetuto abbastanza, nell'uomo normale questi due emisferi sono mantenuti in comunicazione da un mediatore anatomico, il corpo calloso, che rimescola le carte, ma le due competenze suddette ci consentono di fare qualche importante considerazione, anche in ambito estetico. La poesia concreta, se così è giusto chiamarla, si presenta a noi come un tipo di scrittura ipertrofica, in cui i segni alfabetici si gonfiano al di là delle loro funzioni, aspirando a una forma a sé. L'alchimia di questa pratica, che muta l'alfabeto in figu­re, le parole in immagini, non operando per analogie, ma dando spazio visivo ai segni, presuppone una mobilitazione in parallelo, o in convergenza, delle due competenze emisferiche, chiamando in causa insieme, durante la lettu­ra, la parte destra e la parte sinistra dei cervello.

Pro­prio come accade, secondo Tsunoda, per i giapponesi. Difatti, la scrittura degli uomini del sol levante, a quanto sembra, è formata da due sistemi combinati, uno ideografi­co e uno alfabetico, che convivono nella pagina. La cosa, ha scritto Tsunoda alcuni anni fa, comporta una novità di non poco momento: il giapponese, quando legge, deve impiegare non solo l'emisfero di sinistra, come facciamo noi, uomini di Gutenberg, ma, per appropriarsi delle icone e delle immagini, fa uso anche dell' emisfero di destra. La scrittura giapponese sarebbe così una sorta di poesia visiva naturale, e dato che gli ideo grammi sono fortemente astratti, un paleoprototipo di poesia concreta. Non si incor­ra in equivoci: la poesia, da noi, come ars alfabetica, almeno a livello molecolare, viene letta dall'emisfero di sinistra, e come ritmo, e supporto di emozione, vissuta dall'emisfero di destra, ma la poesia concreta pone una pregiudiziale cronologica. Una poesia di parole-parole si fa totale nella mente dopo la lettura, una poesia di parole-immagini, al pari della scrittura giapponese, risul­ta già neurologicamente totale nel momento stesso della lettura.

È sempre stato evidente come la poesia concreta miri a una regressione che porti al prima dell'etimologico, alle radici dello scrivere, tenda a mettere sotto analisi semantica le parole perché svelino, o si reinventino, gli ideogrammi rimossi. Se la scrittura nasce da una emancipazione concettuale dalla pittura, la poesia concreta chiude all'inverso il circolo e riconsegna le parole alle forme. Adriano Spatola ha cominciato, con i suoi zeroglìfici, poco più di vent'annì fa, ad assolvere questo mandato praticando il cubismo della scrittura. Spatola ha sempre pensato che le parole abbiano un davanti e un dietro, un dritto e un rovescio e si è dato a dissezionarle per bene, Braque del linguaggio, per mostrarle a tutto tondo, suggerendo che per lui, come per i cubisti storici, il frammento è più totale dell'intero, e i lacerti alfabetici rappresentano più in grande delle proposizioni. Ridiamo le parole all'oc­chio, è uno dei suoi intenti, e per questo dissolve i versi in grandi puzzle chirurgici, per restituirceli sotto specie geometrica, o fa abdicare le parole dal loro significato per rimetterle in circolo come congegni ottici.

Un vero programma per infrazioni, o compromessi neurologici alla giapponese o per scritture-pitture à rebours. Ma se l'alfa­beto fenicio ha smarrito la memoria dei suoi fantasmi vi­suali, se ha cancellato, nelle parole, i ricordi dell'occhio? Non importa, ci si può sempre inventare di sana pianta un passato. Spatola, così , trova l'icona scomparsa nella forma stessa delle parole. Privo della pittura prima della scrittura, scopre la pittura nella scrittura. Punta, a fon­do, sul virtuale eidetico delle lettere. Com'è bella a veder­si una 0! Che meraviglia una C! Jean-Arthur Rimbaud non è lontano. Nei suoi ultimi zeroglifici, Spatola mette in atto, accanto alla dissezione, la disintegrazione e l’esplosione, impiegate con un gusto più evidente per il gioco. Una via ludica che diventa subito tensione compositiva, attenzione per il campo percettivo del quadro, in cui fluttuano sovente, con la soave persuasione dei moti browniani, o dei war-game con l’entropia, i frammenti minimi di un immenso poema naufragato in immagini. Forse un “De rerum cultura” scritto per l’occhio.

Giorgio Celli Da Adriano Spatola, Campanotto Editore, 1986

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