L'interesse per nuove costituzioni linguistiche e per il dialogo tra poeta e lettore furono (e restano) i due criteri naturali che presiedettero alla operazione involontariamente clamorosa dell'antologia I NOVISSIMI a cui lavorai dall'agosto '60 al gennaio '61. Nell'introduzione parlai della visione «schizomorfa» del poeta contemporaneo, e ne riassumevo i caratteri tipici: la discontinuità del processo immaginativo l'asintattismo / la violenza operata sui segni cioè la giustapposizione e compresenza di vari ordini di discorso / la scomposizione e ricomposizione della struttura sintattica / la semanticità della frase sospesa o interrotta dal premere di altre frasi / l'asprezza o l'atonalismo del metro.
E parlai del vero «contenuto» come di ciò che la poesia fa sul lettore proprio mediante i suoi giochi linguistici.
Accennai anche all'esaurimento storico di certe categorie che in passato avevano reso poetico il linguaggio «contemplativo» e «argomentante» del vecchio logos illuministico e poi romantico (tutti e due degradati, giustamente ma pure inefficacemente, nel crepuscolarismo).
Devo riconoscere oggi che questa teoria poetica mi si adattava soltanto con qualche mediazione, e direttamente era verificabile soltanto in tre o quattro delle mie poesie più recenti.
Devo riconoscere oggi che questa teoria poetica mi si adattava soltanto con qualche mediazione, e direttamente era verificabile soltanto in tre o quattro delle mie poesie più recenti.
il collage
Fu in quel tempo, dopo l'uscita dell'antologia, che mi misi a sperimentare il collage. Non avevo un programma ben definito, mi spingevano quelle ambizioni teoriche, riflesse chiaramente nel lavoro dei miei amici e nella mia ricerca. Ero stupito e divertito dalle inedite possibilità semantiche dei brani di giornale (titoli, occhielli, sottotie spesso oltre l'intenzione del giornalista): ritagliando e rincollando, quei brani di lingua usata e spesso forzosa mi si componevano e ricomponevano quali «pezzetti percettivi» di un mondo linguistico compiutamente diverso da quello che avevo conosciuto al principio della mia poesia in versi.
Qui la lingua ambiva al significato più intenso; prima di essere «montati», i sintagmi erano lavorati dalla coscienza; ne risultava un mondo fissato nella dimensione del pensiero e non in quella dell'oggetto.
La dicibilità non era vissuta come un campo, ma piuttosto quale discesa in un pozzo.
Invece, nell'operazione del collage la dicibilità, sia pure sconnessa slabbrata e priva della profonda costrizione del sogno, si riapriva enormemente: nel collage saggiavo i quanti di frustrazione e la carica di rivolta, l'umanità e la beffa che si potevano immettere nel mondo linguistico meno «poetico» che conosciamo.
Andando avanti nella ricerca (e nel gioco che questo tipo di esperimento comporta, almeno quale misura precauzionale) anche frasi e brani ricavati dallo stesso contesto dei giornali cominciarono ad affermare una loro strana vitalità. Richiami di cronaca, spunti di aneddoti, piccoli o grandi simboli impreveduti: nel trascrivere il testo degli ultimi collages fatti nei primi mesi del '63 mi accorsi che non erano che impasti dialogici.
È di qui che comincia il mio spazio teatrale. Ora prendo il mio dialogo dove lo trovo, ascolto i discorsi al caffè e sulle porte dei negozi, considero una fortuna i «contatti» telefonici, e leggo sempre i giornali in quel modo «materico» di cui mi son fatto un'abitudine e che corrisponde in realtà al modo più frequente con cui la gente legge effettivamente. Non finisco di stupirmi di come la gente parla e di come la gent e legge.
Nel mio procedimento c'è senza dubbio più di una analogia con quello che seguono certi pittori della pop art. Non so se sia, come dice il mio amico Paolo Emilio Carapezza, sulla scia di Adorno, un modo (l'unico, per il momento) di riscattare da degradazione del logos a utensile»; è certamente un modo (l'unico, per il momento) di riscoprire la necessità del dialogo nella specifica sua forma drammatica. È la natura del procedimento che mi interessa, non la sua occasionalità empirica: come ho preso a trascurare il collage vero e proprio, una volta scopertane l'interizione (che in principio ignoravo: a tutto pensavo fuorché al teatro), potrò in avvenire abbandonare il bricolage dei «pezzetti percettivi» e magari inventare direttamente l'oggetto teatrale. Ma / bene inteso: valga quel che valga / la dimensione che ho creduto di scoprire resta essenziale. Naturalmente, l'operazione del collage ha due aspetti: il bricolage, cioè la raccolta e il deposito dei materiali; in secondo luogo: è un sistema di proiezioni (nel senso psicanalitico) e, viceversa, un repertorio di fenomeni «esterni» (gli «altri», il mondo). Al montaggio, poi, deve soccorrere un problema, un'invenzione guida. Ma la partitura che ne risulta deve comportate la possibilità di letture e interpretazioni sempre differenti. Il teatro deve apparire quella cosa insieme tangibile e illusoria che di fatto è. [..]
Qui la lingua ambiva al significato più intenso; prima di essere «montati», i sintagmi erano lavorati dalla coscienza; ne risultava un mondo fissato nella dimensione del pensiero e non in quella dell'oggetto.
La dicibilità non era vissuta come un campo, ma piuttosto quale discesa in un pozzo.
Invece, nell'operazione del collage la dicibilità, sia pure sconnessa slabbrata e priva della profonda costrizione del sogno, si riapriva enormemente: nel collage saggiavo i quanti di frustrazione e la carica di rivolta, l'umanità e la beffa che si potevano immettere nel mondo linguistico meno «poetico» che conosciamo.
Andando avanti nella ricerca (e nel gioco che questo tipo di esperimento comporta, almeno quale misura precauzionale) anche frasi e brani ricavati dallo stesso contesto dei giornali cominciarono ad affermare una loro strana vitalità. Richiami di cronaca, spunti di aneddoti, piccoli o grandi simboli impreveduti: nel trascrivere il testo degli ultimi collages fatti nei primi mesi del '63 mi accorsi che non erano che impasti dialogici.
È di qui che comincia il mio spazio teatrale. Ora prendo il mio dialogo dove lo trovo, ascolto i discorsi al caffè e sulle porte dei negozi, considero una fortuna i «contatti» telefonici, e leggo sempre i giornali in quel modo «materico» di cui mi son fatto un'abitudine e che corrisponde in realtà al modo più frequente con cui la gente legge effettivamente. Non finisco di stupirmi di come la gente parla e di come la gent e legge.
Nel mio procedimento c'è senza dubbio più di una analogia con quello che seguono certi pittori della pop art. Non so se sia, come dice il mio amico Paolo Emilio Carapezza, sulla scia di Adorno, un modo (l'unico, per il momento) di riscattare da degradazione del logos a utensile»; è certamente un modo (l'unico, per il momento) di riscoprire la necessità del dialogo nella specifica sua forma drammatica. È la natura del procedimento che mi interessa, non la sua occasionalità empirica: come ho preso a trascurare il collage vero e proprio, una volta scopertane l'interizione (che in principio ignoravo: a tutto pensavo fuorché al teatro), potrò in avvenire abbandonare il bricolage dei «pezzetti percettivi» e magari inventare direttamente l'oggetto teatrale. Ma / bene inteso: valga quel che valga / la dimensione che ho creduto di scoprire resta essenziale. Naturalmente, l'operazione del collage ha due aspetti: il bricolage, cioè la raccolta e il deposito dei materiali; in secondo luogo: è un sistema di proiezioni (nel senso psicanalitico) e, viceversa, un repertorio di fenomeni «esterni» (gli «altri», il mondo). Al montaggio, poi, deve soccorrere un problema, un'invenzione guida. Ma la partitura che ne risulta deve comportate la possibilità di letture e interpretazioni sempre differenti. Il teatro deve apparire quella cosa insieme tangibile e illusoria che di fatto è. [..]
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