Signori miei, lo confesso: da anni
questa realtà che porta di traverso
un cappello ridicolo e assomiglia
a un personaggio di Brecht, ansiosamente
mi fa cenno dagli angoli, ma è raro
che parli il mio linguaggio, e mi assicuri
di non essere identica a me stesso.
E allora mi domando, osservando
fotografie e paesaggi, e nuvole e ritagli
di carte colorate, alberi, donne,
geodi rotonde e rozze come un pugno chiuso
rotearmi negli occhi, fino a dove questa
esperienza di cose sia totale e falsa
non sia vera e parziale — e mi rifugio
a evocare le ombre della storia
come fossero tutte (e nessuna rinuncia
alla prima persona) non già la proiezione
della mia volontà condizionata, ma la somma
di ciò che è morto e di una profezia.
Fra i diversi momenti del tempo, in ogni pausa,
il luogo in cui la mia poesia s’affanna
è una soglia distrutta, un tempio vuoto
dove il vento ripete un cenno incomprensibile.
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