GIORGIO BASSANI,IN RIMA E SENZA di sergio falcone | www.sergiofalcone.blogspot.com
Mondadori pubblica nella collana Lo Specchio (I poeti del nostro tempo) tutta l’opera in versi di Giorgio Bassani, col titolo In rima e senza. Il tardo Bassani torna dunque alla poesia? I suoi esordi dopotutto sono legati a due libri di versi, che aprono appunto questa nuova raccolta: Storia dei poveri amanti (1945), Te lucis ante (1947).
Ne parliamo con l’autore.
Quale rapporto corre tra la raccolta di tutte le sue poesie e le quasi mille pagine del Romanzo di Ferrara?
“Tanto la mia poesia, quanto Il romanzo di Ferrara sono una forma di confessione. Anche nel romanzo mi sono confessato: attraverso i personaggi. Micol Finzi-Contini è una parte di me, il dottor Fatigati de Gli occhiali d’oro s’impadronisce di alcune circostanze, di certe mie abitudini. Bruno Lattes, protagonista di alcuni miei racconti e romanzi, assomiglia molto a me. Non ho mai potuto concepire un racconto senza aver chiara nella fantasia, nei minimi particolari, la casa che era teatro della vicenda.
La poesia lirica, invece, è una forma più diretta di confessione. L’io delle mie poesie coincide quasi perfettamente con l’io esistenziale, con la persona del poeta. L’unico diaframma fra il lettore e il poeta è la forma. La forma impedisce, purtroppo, o per fortuna, che la confessione sia totale”.
L’ultimo Bassani torna alla poesia?
“Veramente non me ne sono mai allontanato. Ho sempre cercato di confessarmi, di volta in volta, sia attraverso la cosiddetta lirica, sia attraverso la forma narrativa”.
Quali le cronologie, le datazioni, i luoghi geografici nei suoi versi?
“Ferrara e Roma. Sono le mie due città. La prima parte, che si chiama In rima, succede tutta a Ferrara. Sono le poesie di quando abitavo là. E’ vero che Te lucis ante, la seconda parte di In rima, l’ho scritta a Roma. Ma in sostanza tutto accade a Ferrara. Nel ’43 sono stato in carcere. Una esperienza drammatica, spaventosa, religiosa in qualche modo, che mi ha dettato successivamente, nel ’47-’48, appunto le poesie di Te lucis ante. Dicevo che la prima parte succede a Ferrara. L’ambiente di queste poesie, le immagini, sono di Ferrara. La città, la sua campagna, la mia famiglia, i miei amori. Ambienti familiari, stagioni, campagne, strade, tutto ciò che ho conosciuto, amato, respirato, sofferto… Mentre le poesie della seconda parte, quelle di Senza, accadono fuori di Ferrara. Sono scritte a Roma, e in fondo parlano di me a Roma”.
Quali sono i temi fondamentali della sua narrativa e della sua poesia?
“La ricerca dell’origine. La mia poesia è un recupero, del resto come Il romanzo di Ferrara, delle mie origini, della mia casa. Ricordo che già da ragazzo raccoglievo visi, profili, parole; mi colpiva un’immagine, un discorso, un aneddoto. La mia poesia è tutta reale, concreta. Anche come poeta sono uno storicista. Metto le date dentro i miei versi. Per esempio, scrivo in una poesia che si intitola Le leggi razziali, la data del ’39. Era quello l’anno esatto”.
Quali sono dunque i suoi maestri?
“Benedetto Croce, Roberto Longhi, sono stati i miei maestri. Entrambi mi hanno insegnato che ogni atto dello spirito è unico e irripetibile. Ma anche Giorgio Morandi, nella sua riduzione al minimo della realtà, mi ha insegnato che l’artista deve essere vero, a costo di essere quasi niente. A Bologna seguivo le lezioni di Longhi, frequentavo Arcangeli, Rinaldi, Raimondi. Facevo parte della scuola letteraria bolognese”.
Che cos’è per lei la storia?
“La storia per me è il risultato di una realtà spirituale”.
Lei ha studiato a lungo il Vico. Linguaggio, poesia e storia sono i campi in cui più moderne appaiono le intuizioni vichiane. Vico è un pensatore attuale?
“Sì, se Vico aveva colto l’inadeguatezza della ragione tradizionale, e ne voleva l’allargamento, attraverso il pensiero mitico, attraverso i rapporti tra pensiero e società, tra riflessione e fantasia poetica, tra idee e parole. Vico era attento all’inconscio dell’anima umana”.
“Poeti non si nasce, poeti si diventa”, disse un critico…
“’Critici si nasce, poeti si diventa’, diceva Roberto Longhi. Il primo atto è un’operazione critica e intellettuale. Poeti si diventa dopo, se segue la poesia. Però bisogna che accada la prima condizione, che non può non essere un’operazione critica”.
Veniamo al tema degli ebrei, dell’ebraismo, della diversità delle proprie origini, nei suoi romanzi, appunto, ne Gli occhiali d’oro, ne Il giardino dei Finzi-Contini…
“Mi sono occupato del tema decadentistico degli ebrei, senza essere ebreo. O, meglio: lo ero, poiché nascevo ebreo. Ma, credo, il tema dell’ebraismo, nei miei romanzi, è affrontato senza pietismo religioso, senza il minimo coinvolgimento mentale”.
Molta sua poesia è legata al tema della diversità degli ebrei: Storie di poveri amanti, Cena di Pasqua. Vennero le leggi razziali, il carcere, in anni in cui tutto sembrava perduto…
“Le leggi razziali, il carcere, erano stati un evento fondamentale nella mia vita, perché se da un lato, come emarginato, mi avevano separato da un contesto sociale, dall’altro mi ci avevano collegato per sempre”.
Ricorre il centenario di Mussolini, raccontato in tv – un buon motivo, tra i tanti, per tenerla spenta – alle giovani generazioni negli abiti di buon padre. Che cos’è il fascismo per il poeta Bassani?
“Un’epoca atroce ma felice. Ovviamente per me. Tra il ’38 e il ’45, i lunghi anni della mia resistenza e della militanza clandestina antifascista sono stati tra i più felici della mia vita. Mi sentivo emarginato, segnato, ma allo stesso tempo ero convinto di essere nella verità. Erano gli anni in cui mi si rivelava la bellezza della mia terra. Ricordo un inverno in cui la pianura m’era parsa minacciata: non un filo d’erba che annunciasse la primavera, non un uccello. Mentre altri miei correligionari prendevano la via dell’America, io preferivo restare là, a Ferrara”.
Facciamo un salto in avanti di dieci anni. Come lettore di Feltrinelli, lei ha pubblicato Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa. Perché non si occupa più di editoria?
“A quell’epoca ci si occupava di letteratura, nell’ambito editoriale, senza degli scopi di tipo consumistico o industriale. La prima edizione de Il Gattopardo risale al ’58. C’era tutta una letteratura che rispondeva alle attese di noi lettori di case editrici. Stampavo Tomasi di Lampedusa, D’Arzo, Delfini… Sarei incapace oggi di fare una rivista come Botteghe Oscure, o di dirigere una collana come I Contemporanei di Feltrinelli”.
Quindi, crisi della letteratura?
“In un certo senso, sì. Ma soprattutto crisi dell’editoria. Le case editrici oggi sono tante fabbriche che si preoccupano solo di produrre degli oggetti di consumo”.
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