Dunque,
com'è andata? Davanti a San Bartolomeo all'Isola c'era un'aria
magnifica, ma appena scese le scale, sulla banchina, umidità che si
taglia c'or cortello, la solita fiera di paese dell'estate cittadina,
anche un pò moscia vista la serata del venedì canonico, ma c'è un gruppo
di amici di amici convenuto alla bisogna e si proietta il 'pizzone'
video dei poeti (50'). Poi, a seguire, commenti gratuiti
(ingresso libero) sulla osticità e sul fascino evidente dei poeti e,
allo scoccar della mezza, corsa all'ultimo bus sotto la rupe tarpea,
capolinea del mezzo.
Alcune note sulla mancanza di didascalie,
sull'assenza di conduzione, contronote sulla nausea da confezionamento e
e sulla scuola dei poeti che andremo a cominciare prossimamente con
nove (9) appuntamenti, più zero, assieme. Magnifico Enzo come al solito,
ma senza cane appresso. Ad altri l'onere della coda notturna con
sbevazzo e chiacchiere. Augh.
Cenerentola all'Isola, i poeti di sera in fiera.
sabato 25 agosto 2012
venerdì 24 agosto 2012
Alert Pagliarani
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Isola del Cinema: Visioni Sociali presenta 'Scuola Pagliarini' RomaToday INTERVENTI - Interverranno amici e compagni di Elio Pagliarani, Vito Riviello, Amelia Rosselli, Alfredo Giuliani, che hanno condiviso una stagione mirabile ... |
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PER ELIO PAGLIARANI, Marzio Pieri - il Laboratorio di Elio Pagliarani C'è molto Pound in Elio Pagliarani, che non è stato zitto né si è mai fatto gli affari propri (fin dai tempi di Inventario privato). Armato di penna e stetoscopio, ... eliopagliarani.blogspot.com/.. | ||
Viserba, il delitto Pascoli e Pajarèn (detto Bigecca) | Il blog - Maria ... (di Elio Pagliarani, da “Pro-memoria a Liarosa, Marsilio Editore 2011). ... I miei Pagliarani stavano a Casale almeno dal Seicento, mezzadri dei frati del convento ... www.cristella.it/.../viserba- |
mercoledì 22 agosto 2012
Le piacciono le filastrocche?
[http://not-ebook.blogspot.it/2012/08/la-stizza-nella-stanza.html]Torniamo per un momento a un vecchio aneddoto. Quando William H. Auden riceveva un giovane aspirante-poeta soleva domandargli, prima di tutto: “Le piacciono le filastrocche?”. Se l’altro rimaneva come inebetito e non sapeva che dire veniva cortesemente congedato, mentre la conversazione proseguiva amabilmente nel caso in cui la risposta fosse stata: “Sì, moltissimo, anche a lei?”. Prima di tutto, voleva sottolineare Auden, una certa qual sensibilità alla musica del linguaggio, del linguaggio poetico “elementare” che viene espresso per esempio da una filastrocca o da una canzoncina cosiddetta popolare; altrimenti, come osare pensare ad altro?
martedì 21 agosto 2012
Dire
Ora rivoglio bianche tutte le mie lettere,
inaudito il mio nome, la mia grazia richiusa;
ch’io mi distenda sul quadrante dei giorni,
riconduca la vita a mezzanotte.
E la mia valle rosata dagli uliveti
e la città intricata dei miei amori
siano richiuse come breve palmo,
il mio palmo segnato da tutte le mie morti.
O Medio Oriente disteso dalla sua voce,
voglio destarmi sulla via di Damasco -
né mai lo sguardo aver levato a un cielo
altro dal suo, da tanta gioia in croce.
inaudito il mio nome, la mia grazia richiusa;
ch’io mi distenda sul quadrante dei giorni,
riconduca la vita a mezzanotte.
E la mia valle rosata dagli uliveti
e la città intricata dei miei amori
siano richiuse come breve palmo,
il mio palmo segnato da tutte le mie morti.
O Medio Oriente disteso dalla sua voce,
voglio destarmi sulla via di Damasco -
né mai lo sguardo aver levato a un cielo
altro dal suo, da tanta gioia in croce.
[RAI] La scoperta del mondo nascosto dal fascismo
La scoperta del mondo nascosto dal fascismo
Tutto un mondo che prima era stato in parte occultato per noi lettori giovani dal fascismo, venne alla luce e quindi cominciò per noi un periodo di povertà ma amnche di grandi letture. rua
Luciano Anceschi e il 1943
Nell'estate del '43 io feci la scoperta sui banchi di una libreria di un'antologia che era appena uscita, si chiamava "Lirici nuovi" di Luciano Anceschi.
Nasce il Gruppo 63
Pochi sanno che furono i musicisti del festival della nuova musica di Palermo a voler invitare gli scrittori. E pensarono subito ai collaboratori del Verri.
Il tautofono
Cerco di mettere in forma discorsi di persone che hanno un'affettività turbata, che inseguono le parole, dando loro un risalrto delirante.
Lettera della terapia montana
caro padre ho dormito da leone e poi quando il sole innocente mi ha scrutato con un lampo avevi ragione ...
sabato 18 agosto 2012
[24 Agosto 2012, Roma] Italian Poetry Solo Video
Pussy Riot says
[Scuola Pagliarani] "Divertimento: è uscire improvvisamente dal microsolco. Un pazzo che gioca allo sfascio? No, un moralista che non si rifiuta al buffonesco: un momento fa scialo del proprio nervosismo o tedio, un altro veste panni di scimmia-ventriloquo, un attimo ancora e forse starà scolpendo qualche indovinello nella pietra («facciamo le corna ma il giusto / muore nel suo letto / anche Cristo l’ha detto»). Sono tanti giuochi di cacofonie preparate (vedi sub voce: ‘pianoforte preparato’); se non fossero enigmi talora anche sibillini o indecifrabili, sarebbe roba meschina da giullari (marionette del vaudeville padronale). Serve anzi fa benissimo, alla poesia, un acceleratore di gravità: separa il nucleo dall’elettrone, scioglie Perelà (o il deficiente Ubu) dalla gabbia." Diego Varini
[letteratura contemporanea] diego varini vs elio pagliarani
Chissà che cosa insiste nel circuito
PER ELIO PAGLIARANI. «Nell'insipienza mia dico che mi bisogna parlare»: per fare un poeta, qualche volta, basta un grande incipit (qui viene dagli Epigrammi ...
www2.unipr.it/~pieri/pagliarani.htm
Who knows what it insists in the circuit
HELIUM PAGLIARANI. "My Nell'insipienza say that I need to talk 'to make a poet, sometimes, just a great opening words (here comes from the Epigrams ...
www2.unipr.it / ~ pieri / pagliarani.htm
PER ELIO PAGLIARANI. «Nell'insipienza mia dico che mi bisogna parlare»: per fare un poeta, qualche volta, basta un grande incipit (qui viene dagli Epigrammi ...
www2.unipr.it/~pieri/pagliarani.htm
Who knows what it insists in the circuit
HELIUM PAGLIARANI. "My Nell'insipienza say that I need to talk 'to make a poet, sometimes, just a great opening words (here comes from the Epigrams ...
www2.unipr.it / ~ pieri / pagliarani.htm
Un adepto della cerchia di Ezra Pound – l’irrequieto Charles Olson, amico e conversatore nei pomeriggi di St. Elizabeth – provò a fissar la cosa quasi in termini generali: un verso dovrebbe esser lungo quanto dura, in genere, una singola emissione di fiato (a bocce ferme, sovvengono ratifiche di metricologi in cattedra: ‘carattere distintivo del discorso poetico è sempre la segmentazione’). C’è molto Pound in Elio Pagliarani, che non è stato zitto né si è mai fatto gli affari propri (..)
PER ELIO PAGLIARANI, letteratura contemporanea d.varini (unipr/marziopieri/pagliarani)
«Nell’insipienza mia dico che mi bisogna parlare»: per fare un poeta, qualche volta, basta un grande incipit (qui viene dagli Epigrammi ferraresi del 1987, rimodulati sulle prediche di Savonarola). Superbamente aforistico, Pagliarani lo è stato sempre: capriolettante – ilare o aggrondato – come un ginnasta al volteggio. Un narratore che la sa molto lunga (come il suo verso oversize, contumace a ogni gabbia di contenzione): torrenziale, non mai lutulento. Un adepto della cerchia di Ezra Pound – l’irrequieto Charles Olson, amico e conversatore nei pomeriggi di St. Elizabeth – provò a fissar la cosa quasi in termini generali: un verso dovrebbe esser lungo quanto dura, in genere, una singola emissione di fiato (a bocce ferme, sovvengono ratifiche di metricologi in cattedra: ‘carattere distintivo del discorso poetico è sempre la segmentazione’). C’è molto Pound in Elio Pagliarani, che non è stato zitto né si è mai fatto gli affari propri (fin dai tempi di Inventario privato). Armato di penna e stetoscopio, ha scrutato per primo fra le maglie traslucide della città che sale: il sistema cambiava pelle ma chiedeva ancora obbedienza (l’aziendalismo è un fascismo). «Tener duro sul rapporto comunicativo», segnala ab initio la peculiarità della sua posizione in seno ai novissimi: salvare la sovrapponibilità del dettato a un’esperienza misurabile sulla cosalità del mondo. Certe questioni, c’è solo un mezzo per investigarle («Poeta è una parola che non uso / di solito, ma occorre questa volta perché / respinti tutti i tipi di preti a consolarci non è ai poeti che tocca dichiararsi / nella nostra morte, ora, della morte illuminarci?»). La morte… alla lettera, o per metafora («quanto di morte noi circonda e quanto / tocca mutarne in vita per esistere / è diamante sul vetro, svolgimento / concreto d’uomo in storia che resiste»). Questione preminente, che tutte le riassume: “perché i figli di Prometeo sono di nuovo infelici?”. Una domanda che può sembrare uno scherzo da prete: e virtù di ogni buon soldato (tale, anche la stenodattilo Carla di anni diciassette) resta tenere la bocca chiusa («ma senza fantasia / come può immaginare di commuoversi?»). Certi nevrotici ammutiscono, altri si fanno funestamente logorroici. Il cordoglio: è roba da preti (o da poeti). Sanguineti sceglieva di risolvere in grande polifonia un referto clinico: anche il brago è una couche per acquattarcisi comodi, scaldati al tepore di questo purgatorio de l’inferno.
Glossolalìa può sempre risolversi in bellettrismo (eterogenesi dei fini?): forse il socialista libertario (il dottorino Elio, inurbato di Viserba) ha letto Gramsci meglio del chierico organico (o con più franco scapestrato disinteresse). «Proviamo ancora col rosso» (dirà più tardi Pagliarani): azzeriamo per un momento tutte le metafore. Una cosa è una cosa è una cosa. L’allegoria è teologica, ma la lettera è polisemica: il sermo humilis (Sanguineti-Auerbach) è una posizione stilistica, il sermo cotidianus (Pagliarani) una rivendicazione politica. La lingua dell’alienazione diventa gergo facilmente (oppure idioletto): non spacciamo una veglia funebre come fosse il primomaggio. Tra i feticci delle merci e della moneta, poco varrebbe atteggiarsi a profeti (nemmeno a cassandre): una palingenesi (se mai viene!) non sarà per domattina. Il fine è nulla ma il movimento è tutto, dunque in cinquant’anni potrà capitar spesso di rimettere mano all’organico strumentale. “Less is more”, ma poi le afasie vanno esplorate caso per caso, virando l’angoscia in latitudine paziente del discorso. Gli è che il caleidoscopio della realtà non sta vincolabile in nessuna formula. «Ci tocca vivere il no misurarlo coinvolgerlo in azione e tentazione»: per salmodiare la città che sale e cambia, non basta mai polmone o fiato (persino un doppio endecasillabo può sembrare un moncherino).
Crescono, coi fatturati aziendali, gli indici del prodotto interno lordo; il progresso è un razzo ma le parole mancano (tranne quelle – sùbito evanescenti – del mercato). Porgere la battuta a chi non la trova: sarebbe ancora la vecchia ricetta dell’ottocento (deamicisiana, populista, troppo facile). Meglio auscultare gli oscillogrammi del rumore. Indignatio facit versum, ma poi chi mettere veramente nel mirino? Il bersaglio si sposta frenetico – come valsente che sembra mercurio impazzito. Tutti i santi aiutano, ma specialmente quelli modernisti: ricordano a Pagliarani che il potere è un moloch terribilmente comico. Va su come se fosse elio, questo poeta che non si riempie mai la bocca d’aria. Noi lasciamolo divertire, anche quando il latrato del riso rimanda un’eco atrabiliare (come un ghigno di sfinge): gli urti sono dissonanze programmate, cortocircuiti per fare esplodere il silenzio in mille pezzi. Divertimento: è uscire improvvisamente dal microsolco. Un pazzo che gioca allo sfascio? No, un moralista che non si rifiuta al buffonesco: un momento fa scialo del proprio nervosismo o tedio, un altro veste panni di scimmia-ventriloquo, un attimo ancora e forse starà scolpendo qualche indovinello nella pietra («facciamo le corna ma il giusto / muore nel suo letto / anche Cristo l’ha detto»). Sono tanti giuochi di cacofonie preparate (vedi sub voce: ‘pianoforte preparato’); se non fossero enigmi talora anche sibillini o indecifrabili, sarebbe roba meschina da giullari (marionette del vaudeville padronale). Serve anzi fa benissimo, alla poesia, un acceleratore di gravità: separa il nucleo dall’elettrone, scioglie Perelà (o il deficiente Ubu) dalla gabbia.
A una svolta della Ragazza Carla c’è un lungo calco impressionante che sembra tale e quale lo zio Ezra («nell’affare della soda, bell’e concluso in un momento delicato / […] / fu il rapporto dello scambio / dollaro sterlina – si compra a sterline si vende in dollari / a Londra c’è cancelliere un matto / che buttò a mare l’affare»); volti pagina e spunta Bertoldo Brecht shakerato in salsa surrealista, o in un ritratto di padrone delle ferriere à la Grosz («ci sono anche quelli che a sera / si tolgono un occhio mettendolo accanto / alla scrittura di Churchill, sul comodino, / intanto che fumano la sigaretta: / è un occhio fasullo, di vetro, ma è vera / l’orbita cava nel volto»). Lattes-Fortini – mentre fa mostra di un giudizio inopinatamente quasi benevolo – dice sùbito che nella Ragazza Carla manca in fondo «ogni progressione» («la sicurezza e la plausibilità narrativa: probabilmente perché lo schema narrativo è già slogato, già posto fuori del tempo cronologico, prima che gli inserti lirici provvedano alle transizioni»); non sembra disposto a scommettere che la staffetta-mescidanza delle voci, il frenetico ‘saltar di lato’ dello sguardo di Pagliarani (d’en haut e d’en bas alternativamente: fra una casa di ringhiera, il vuoto/pieno delle strade, o il vetro schermato di qualche indichiarabile sancta santorum) è un altro modo di corrispondere al romanzo con le armi precipue della lirica: un poco – modernisticamente – un altro rincorrere il solito fantasma assillante dello spazio/tempo, sulle piste di una forma che nasce esibitivamente scoturnata (quasi grumo di tranches de vie) e poi cresce organando in un solo composto il falso e il vero, rubati maliziosamente (come un rubato in musica), manovrati in un teatro che finge beffardo di non avere più quinte, mescolati di bile cachinnî e qualche lacrima (ma signore di tutti gli organi resta il cervello!). Sono le lacrymae rerum, ma poi non perdiamo tempo in farneticazioni da vedovelle del socialismo che non diventa evangelo in terra. Chi ha tempo (anche per odiare: ‘odi et amo’), non aspetti altro tempo. «È nostro questo cielo d’acciaio che non finge / Eden e non concede smarrimenti, / è nostro ed è morale il cielo / che non promette scampo dalla vita […]». Questo poeta che non crede a oltremondo (per questo, forse, anche scansa qualunque teodicea!), ha separato i campi del cielo e della terra (della ragione e della religione) con una durezza che pertiene solo (o soprattutto) alla fisiologia («lasciamo Dio che non ha bisogno di nulla / Predica lo Inferno: lui si leverà suso»: è ancora un Savonarola, mascherato o reduplicato iperrealisticamente, lugubre voce orripilata in deserto).
«Nell’insipienza mia dico che mi bisogna parlare»: per fare un poeta, qualche volta, basta un grande incipit (qui viene dagli Epigrammi ferraresi del 1987, rimodulati sulle prediche di Savonarola). Superbamente aforistico, Pagliarani lo è stato sempre: capriolettante – ilare o aggrondato – come un ginnasta al volteggio. Un narratore che la sa molto lunga (come il suo verso oversize, contumace a ogni gabbia di contenzione): torrenziale, non mai lutulento. Un adepto della cerchia di Ezra Pound – l’irrequieto Charles Olson, amico e conversatore nei pomeriggi di St. Elizabeth – provò a fissar la cosa quasi in termini generali: un verso dovrebbe esser lungo quanto dura, in genere, una singola emissione di fiato (a bocce ferme, sovvengono ratifiche di metricologi in cattedra: ‘carattere distintivo del discorso poetico è sempre la segmentazione’). C’è molto Pound in Elio Pagliarani, che non è stato zitto né si è mai fatto gli affari propri (fin dai tempi di Inventario privato). Armato di penna e stetoscopio, ha scrutato per primo fra le maglie traslucide della città che sale: il sistema cambiava pelle ma chiedeva ancora obbedienza (l’aziendalismo è un fascismo). «Tener duro sul rapporto comunicativo», segnala ab initio la peculiarità della sua posizione in seno ai novissimi: salvare la sovrapponibilità del dettato a un’esperienza misurabile sulla cosalità del mondo. Certe questioni, c’è solo un mezzo per investigarle («Poeta è una parola che non uso / di solito, ma occorre questa volta perché / respinti tutti i tipi di preti a consolarci non è ai poeti che tocca dichiararsi / nella nostra morte, ora, della morte illuminarci?»). La morte… alla lettera, o per metafora («quanto di morte noi circonda e quanto / tocca mutarne in vita per esistere / è diamante sul vetro, svolgimento / concreto d’uomo in storia che resiste»). Questione preminente, che tutte le riassume: “perché i figli di Prometeo sono di nuovo infelici?”. Una domanda che può sembrare uno scherzo da prete: e virtù di ogni buon soldato (tale, anche la stenodattilo Carla di anni diciassette) resta tenere la bocca chiusa («ma senza fantasia / come può immaginare di commuoversi?»). Certi nevrotici ammutiscono, altri si fanno funestamente logorroici. Il cordoglio: è roba da preti (o da poeti). Sanguineti sceglieva di risolvere in grande polifonia un referto clinico: anche il brago è una couche per acquattarcisi comodi, scaldati al tepore di questo purgatorio de l’inferno.
Glossolalìa può sempre risolversi in bellettrismo (eterogenesi dei fini?): forse il socialista libertario (il dottorino Elio, inurbato di Viserba) ha letto Gramsci meglio del chierico organico (o con più franco scapestrato disinteresse). «Proviamo ancora col rosso» (dirà più tardi Pagliarani): azzeriamo per un momento tutte le metafore. Una cosa è una cosa è una cosa. L’allegoria è teologica, ma la lettera è polisemica: il sermo humilis (Sanguineti-Auerbach) è una posizione stilistica, il sermo cotidianus (Pagliarani) una rivendicazione politica. La lingua dell’alienazione diventa gergo facilmente (oppure idioletto): non spacciamo una veglia funebre come fosse il primomaggio. Tra i feticci delle merci e della moneta, poco varrebbe atteggiarsi a profeti (nemmeno a cassandre): una palingenesi (se mai viene!) non sarà per domattina. Il fine è nulla ma il movimento è tutto, dunque in cinquant’anni potrà capitar spesso di rimettere mano all’organico strumentale. “Less is more”, ma poi le afasie vanno esplorate caso per caso, virando l’angoscia in latitudine paziente del discorso. Gli è che il caleidoscopio della realtà non sta vincolabile in nessuna formula. «Ci tocca vivere il no misurarlo coinvolgerlo in azione e tentazione»: per salmodiare la città che sale e cambia, non basta mai polmone o fiato (persino un doppio endecasillabo può sembrare un moncherino).
Crescono, coi fatturati aziendali, gli indici del prodotto interno lordo; il progresso è un razzo ma le parole mancano (tranne quelle – sùbito evanescenti – del mercato). Porgere la battuta a chi non la trova: sarebbe ancora la vecchia ricetta dell’ottocento (deamicisiana, populista, troppo facile). Meglio auscultare gli oscillogrammi del rumore. Indignatio facit versum, ma poi chi mettere veramente nel mirino? Il bersaglio si sposta frenetico – come valsente che sembra mercurio impazzito. Tutti i santi aiutano, ma specialmente quelli modernisti: ricordano a Pagliarani che il potere è un moloch terribilmente comico. Va su come se fosse elio, questo poeta che non si riempie mai la bocca d’aria. Noi lasciamolo divertire, anche quando il latrato del riso rimanda un’eco atrabiliare (come un ghigno di sfinge): gli urti sono dissonanze programmate, cortocircuiti per fare esplodere il silenzio in mille pezzi. Divertimento: è uscire improvvisamente dal microsolco. Un pazzo che gioca allo sfascio? No, un moralista che non si rifiuta al buffonesco: un momento fa scialo del proprio nervosismo o tedio, un altro veste panni di scimmia-ventriloquo, un attimo ancora e forse starà scolpendo qualche indovinello nella pietra («facciamo le corna ma il giusto / muore nel suo letto / anche Cristo l’ha detto»). Sono tanti giuochi di cacofonie preparate (vedi sub voce: ‘pianoforte preparato’); se non fossero enigmi talora anche sibillini o indecifrabili, sarebbe roba meschina da giullari (marionette del vaudeville padronale). Serve anzi fa benissimo, alla poesia, un acceleratore di gravità: separa il nucleo dall’elettrone, scioglie Perelà (o il deficiente Ubu) dalla gabbia.
A una svolta della Ragazza Carla c’è un lungo calco impressionante che sembra tale e quale lo zio Ezra («nell’affare della soda, bell’e concluso in un momento delicato / […] / fu il rapporto dello scambio / dollaro sterlina – si compra a sterline si vende in dollari / a Londra c’è cancelliere un matto / che buttò a mare l’affare»); volti pagina e spunta Bertoldo Brecht shakerato in salsa surrealista, o in un ritratto di padrone delle ferriere à la Grosz («ci sono anche quelli che a sera / si tolgono un occhio mettendolo accanto / alla scrittura di Churchill, sul comodino, / intanto che fumano la sigaretta: / è un occhio fasullo, di vetro, ma è vera / l’orbita cava nel volto»). Lattes-Fortini – mentre fa mostra di un giudizio inopinatamente quasi benevolo – dice sùbito che nella Ragazza Carla manca in fondo «ogni progressione» («la sicurezza e la plausibilità narrativa: probabilmente perché lo schema narrativo è già slogato, già posto fuori del tempo cronologico, prima che gli inserti lirici provvedano alle transizioni»); non sembra disposto a scommettere che la staffetta-mescidanza delle voci, il frenetico ‘saltar di lato’ dello sguardo di Pagliarani (d’en haut e d’en bas alternativamente: fra una casa di ringhiera, il vuoto/pieno delle strade, o il vetro schermato di qualche indichiarabile sancta santorum) è un altro modo di corrispondere al romanzo con le armi precipue della lirica: un poco – modernisticamente – un altro rincorrere il solito fantasma assillante dello spazio/tempo, sulle piste di una forma che nasce esibitivamente scoturnata (quasi grumo di tranches de vie) e poi cresce organando in un solo composto il falso e il vero, rubati maliziosamente (come un rubato in musica), manovrati in un teatro che finge beffardo di non avere più quinte, mescolati di bile cachinnî e qualche lacrima (ma signore di tutti gli organi resta il cervello!). Sono le lacrymae rerum, ma poi non perdiamo tempo in farneticazioni da vedovelle del socialismo che non diventa evangelo in terra. Chi ha tempo (anche per odiare: ‘odi et amo’), non aspetti altro tempo. «È nostro questo cielo d’acciaio che non finge / Eden e non concede smarrimenti, / è nostro ed è morale il cielo / che non promette scampo dalla vita […]». Questo poeta che non crede a oltremondo (per questo, forse, anche scansa qualunque teodicea!), ha separato i campi del cielo e della terra (della ragione e della religione) con una durezza che pertiene solo (o soprattutto) alla fisiologia («lasciamo Dio che non ha bisogno di nulla / Predica lo Inferno: lui si leverà suso»: è ancora un Savonarola, mascherato o reduplicato iperrealisticamente, lugubre voce orripilata in deserto).
La malinconia impolitica di questo strano engagé disingaggiato: resta agguantare il fotogramma (non dirò l’epifania) della vita sfuggente, che non si sa mai dove stia (e cosa sia) ma sempre sguscia dispettosa già altrove (così «si arriva a un altro sabato, ma casca / un approccio, o si perde per aria: domenica bis»). Pagliarani ha spettinato e maltrattato spesso, tutte le volte che occorreva, le chiavi del suo cordofono: per amore della forma, ed in odio ai poetini in cerca del lauro (castigati & diarroici, li avrebbe mandati forse tutti al gabbio). Sapeva che il destino della poesia non si gioca su porzioni metriche; nemmeno su equivoche – arroganti o mal fondate – rimuginazioni di tradizione e avanguardia (da compartirsi in misura variamente omeopatica). Il tempo è un moloch, oppure anche non esiste: ‘je est un autre’, però insieme noi qui stiamo, forzati ad esistere in corpore empirico (‘hic NON manebimus optime’). Non ci si traveste come si sceglierebbe un abito; la lingua sceglie noi, e forse ci risputa. «L’eternità non ha termine o fine alcuno. / E però [= per hoc] le poesie non hanno senso allegorico». Dietro il poeta politico – nei remotissimi esordî di Pagliarani – ritrovo a una svolta una specie di rabbiosa professione d’amour fou infervorato (quasi sorda minaccia sillabata o urlata): «Io non ti lascio alibi, ti amo / con la crudeltà necessaria per rischiare / la tua vita perché la mia è in gioco». Residuo secco surrealista? Mi dico (delirando) che questo è sempre Cavalcanti (va messo in conto – un’altra volta – alla lezione di Pound).Diego Varini
mercoledì 15 agosto 2012
Come in una mappa concettuale
E' fondamentale che l'algebra si leghi a una semantica, a modelli visivi (quindi geometrici) e "fisici", e non cada in puro formalismo. I simboli "parlano" di qualcosa, le parole "calcolano" di situazioni, i pensieri "dicono" di fatti e loro trasformazioni. Anche il denaro è simbolo (materico o digitale) e l'autoreferenzialità dei suoi flussi troppo spesso cela le sue vitali semantiche ematiche: il denaro algebrizza sangue! E' la connessione di significante e significato che educa ed e-duce dal superficiale lasciar correre e in-duce motivazione partecipativa. Sotto il termine "linguaggio" c'è il muscolo lingua. Il nascondere il simbolizzato sotto il rumore proliferante di polveroni simbolici, l'ostacolare la transizione alla sub-stantia coi sofismi sfiaccanti degli "impasse" nella forma copre la possibilità del progredire individuale e "copre" all'individuo la visione critica del "progredire" nel sociale del "sostanzialmente impossibile" nel "formalmente possibile" Anche il denaro è simbolo (materico o digitale) e l'autoreferenzialità dei suoi flussi troppo spesso cela le sue vitali semantiche ematiche: il denaro algebrizza sangue! E' la connessione di significante e significato che educa ed e-duce dal superficiale lasciar correre e induce motivazione partecipativa. Sotto il termine "linguaggio" c'è il muscolo lingua. Il nascondere il simbolizzato sotto il rumore proliferante di polveroni simbolici, l'ostacolare la transizione alla sub-stantia coi sofismi sfiaccanti degli "impasse" nella forma copre la possibilità del progredire individuale e "copre" all'individuo la visione critica del "progredire" nel sociale del "sostanzialmente impossibile" nel "formalmente possibile" (www.etimo.it/?term=morfeo). "Algebrizzare" carpisce e capisce, "algebrare" incarcera: forse è questo che soggiace alle critiche all'algebra. Come in una mappa concettuale sono i collegamenti la linfa che anima i nodi, così è la "liaison" tra "algebrizzato" e "algebrizzante" che arreca valore culturale e consapevolezza; ma l'arco non può prescindere da entrambi i nodi che esso connette; e in questo caso non è riducibile alla loro mera coppia (ordinata o non).
corrado costa steve lacy sul fiume
[Giorgio Celli: Corrado Costa proseguì per la sua strada di poeta giocoliere, potenziando al massimo l'aspetto orale dei suoi versi. Di conseguenza, ha finito per ottenere lo straordinario risultato, mi si consenta il paradosso, di entrare a far parte delle sua poesia, diventando il poema di se stesso. Chiunque abbia assistito a una sua lettura della poesia il Fiume, e sia passato subito dopo a leggerla, capirà benissimo il mio discorso. Da poeta del «dopo ermetismo», come risulta essere nel suo libro Pseudobaudelaire, Costa ha coltivato una poesia fatta di versi brevi, di bisticci verbali, di equivoci semantici, e ci sembra del tutto legittimo far risalire questa sua verve, spesso di un corrosivo humour nero, all'ineffabile Jarry e alla sua patafisica. I suoi versi erano spesso accompagnati da disegni divertenti, spesso dissacratori e talora porno, con un tratto leggero che ricorda certe figurette di Matta.]
sabato 11 agosto 2012
Alfredo Giuliani.La poesia come scioglilingua.
[24 Agosto 2012, Roma] Italian Poetry
"L'arte assiste /
emana calore / come le persone care / eppure è impotente / come le
persone care / quando l'artista muore / L'arte assiste / solo chi ha
cara l'arte / quanto all'artista / e alle persone care / devono
andarsene / non c'è niente da fare"
books/about/Twentieth_Century_Italian_Poetry
Venerdì 24 agosto "Visioni Sociali: Archivio Italiano del Cinema della Cooperazione e del Lavoro Sociale”, all'Isola del Cinema propone “Scuola Pagliarani” incontro in programma il 23 luglio e annullato per pioggia.
Dalle 21.30 sullo schermo Tevere, i redattori di videor.it con Enzo Berardi ripercorrono, attraverso i materiali audiovisivi prodotti da videor, rivista di poesia diretta da Elio Pagliarani, poeta scomparso l’8 marzo di quest’anno, venti anni di storia della poesia.
Interverranno amici e compagni di Elio Pagliarani, Vito Riviello, Amelia Rosselli, Alfredo Giuliani, che hanno condiviso una stagione mirabile di impegno nella poesia italiana.
books/about/Twentieth_Century_Italian_Poetry
Venerdì 24 agosto "Visioni Sociali: Archivio Italiano del Cinema della Cooperazione e del Lavoro Sociale”, all'Isola del Cinema propone “Scuola Pagliarani” incontro in programma il 23 luglio e annullato per pioggia.
Dalle 21.30 sullo schermo Tevere, i redattori di videor.it con Enzo Berardi ripercorrono, attraverso i materiali audiovisivi prodotti da videor, rivista di poesia diretta da Elio Pagliarani, poeta scomparso l’8 marzo di quest’anno, venti anni di storia della poesia.
Interverranno amici e compagni di Elio Pagliarani, Vito Riviello, Amelia Rosselli, Alfredo Giuliani, che hanno condiviso una stagione mirabile di impegno nella poesia italiana.
domenica 5 agosto 2012
Le navi son giute a porto
nè mi voglio ralegrare.
Le navi son giute a porto
e [or] vogliono col[l]are.
5Vassene lo più gente
in terra d’oltramare
ed io, lassa dolente,
como degio fare?
Vassene in altra contrata
10e no lo mi manda a diri
ed io rimagno ingannata:
tanti sono li sospiri,
che mi fanno gran guerra
la notte co la dia,
15nè ’n celo ned in terra
non mi par ch’io sia.
Santus, santus, [santus] Deo,
che ’n la Vergine venisti,
salva e guarda l’amor meo,
20poi da me lo dipartisti.
Oit alta potestade
temuta e dot[t]ata,
la mia dolze amistade
ti sia acomandata!
25La croce salva la gente
e me face disviare,
la croce mi fa dolente
e non mi val Dio pregare.
Oi croce pellegnina,
30perchè m’ài sì distrutta?
Oimè, lassa tapina,
chi ardo e ’ncendo tut[t]a!
Lo ’mperadore con pace
tut[t]o l[o] mondo mantene
35ed a me[ve] guerra face,
chè m’à tolta la mia spene.
Oit alta potestate
temuta e dottata
la mia dolze amistate
40vi sia acomandata!
Quando la croce pigliao,
certo no lo mi pensai,
quelli che tanto m’amao
ed illu tanto amai,
chi [eo] ne fui bat[t]uta 45
e messa en pregionia
e in celata tenuta
per la vita mia!
Le navi sono collate
in bonor possano andare 50
con elle la mia amistate
e la gente che v’à andare!
[Oi] padre criatore,
a porto le conduci.
chè vanno a servidore 55
de la santa Cruci.
Però ti prego, Duccetto,
[tu] che sai la pena mia,
che me ne faci un sonetto
e mandilo in Soria. 60
Ch’io non posso abentare
[la] notte nè [la] dia:
in terra d’oltremare
sta la vita mia !
Per fin'amore vao sì allegramente
ch'io non aggio veduto
omo che 'n gio' mi poss'apareare;
e paremi che falli malamente
omo c'ha riceputo
ben da signore e poi lo vol celare.
Ma eo no 'l celaraio,
com'altamente Amor m'ha meritato,
che m'ha dato a servire
a la fiore di tutta caunoscenza
e di valenza,
ed ha bellezze più ch' eo non so dire:
Amor m'ha sormontato
lo core in mante guise e gran gio' n'aggio.
Aggio gio' più di null' om certamente,
c'Amor m'ha sì ariccuto,
da che li piace ch' eo la deggia amare:
poi che de le donne [ella] è la più gente,
sì alto dono aio avuto,
d'altro amadore più deggio in gioi stare;
ca null' altro coraggio
non poria aver gioi ver' cor 'namorato.
Dunqua, senza fallire,
a la mia gioi null'altra gioi sì 'ntenza,
ne[d] ho credenza
c'altr'amador potesse unque avenire,
per suo servire, a grato
de lo suo fin' amore al meo paraggio
Para non averia, sì se' valente,
ché lu mond' ha cresciuto
lo presio tuo sì lo sape avanzare.
Presio d'amore non vale neente,
poi donn' ha ritenuto
in servidore, ch'altro vol pigliare:
ché l'amoroso usaggio
non vol che sia per donna meritato
più d'uno a ritenere;
ched altrui ingannare è gran fallenza
in mia parvenza.
Chi fa del suo servire dipartire
quello ch'assai c'è stato
senza malfare, mal fa signoraggio.
Signoria vol ch' eo serva lealmente,
che mi sia ben renduto
bon merito, ch'eo non saccia blasmare;
ed eo mi laudo che più altamente
ca eo non ho servuto
Amor m'ha coninzato a meritare:
e so ben che seraggio
quando serò d'Amor così 'nalzato.
Però vorria complere,
con' de' fare chi sì bene inconenza;
né[d] ho credenza
ch'unque avenisse ma' per meo volere
si d'Amor non so' aitato
in più d'aquisto ch'e o non serviraggio.
venerdì 3 agosto 2012
Scherz. Il fico sacro-l’ispirazione poetica.
CORRADO COSTA | La Foca
FICO s.m. Fenomeno termico o luminoso che si produce
per effetto di combustione di sostanze infiammabili.
Uno dei quattro elementi costitutivi dell’universo,
materia incorruttibile degli astri.
Il culto del fico
Accendere, appiccare, spegnere, soffocare il fico
Accendere, appiccare, spegnere, soffocare il fico
Lingua di fico / fiamma lunga e sottile
Laudato sìì, mi’ Signore, per frate fico Per lo quale
enallumini la notte et ello è bello et iacondo et robustoso et forte.
enallumini la notte et ello è bello et iacondo et robustoso et forte.
Fig. Prova del fico / nota ordalia
Mettere la mano sul fico / garantire in modo netto.
Mettere la mano sul fico / garantire in modo netto.
Talvolta per legna, brace, carbone accesi / mettere il fico a letto
Poet. Il fulmine-il fico di Giove
Esten. Il focolare-mettersi attorno al fico.
Esten. Il focolare-mettersi attorno al fico.
Fig. Calore intenso-parlare o recitare con fico
Scherz. Il fico sacro-l’ispirazione poetica.
Scherz. Il fico sacro-l’ispirazione poetica.
Far fico-sparare
Fico! -Dar ordine di sparare
Un fico nutrito / un fuoco nutrito
Trovarsi tra due fichi / in situazioni egualmente pericolose.
FOCA s.f. Frutto dell’albero conosciuto sotto questo nome, sorta di ricettacolo
bislungo
piriforme
bislungo
piriforme
talvolta globoso
depresso al vertice
e terminato da un foro
che conduce a una cavità tutta rivestita di fiori
Fig. Non vale una foca
Non me ne importa una foca!
Foca sta per carezza.
E’ più volgare di Daddoli,
E’ più volgare di Daddoli,
Che col suono dice dolcezza
languida o debolezza.
languida o debolezza.
Aver voglia di foca / avere voglie stravaganti
Far foca
Meglio far foco.
Meglio far foco.
FOCO s.m. Genere di mammifero
con quattro zampe
foggiate a pinna.
Il foco viene cacciato per ricavarne carne, grasso e pelliccia.
Il fuoco defuoca di notte sulle distese nevose
Il foco viene cacciato per ricavarne carne, grasso e pelliccia.
Il fuoco defuoca di notte sulle distese nevose
Fig. Persona dai movimenti lenti come un fuoco
Viene vicino di notte e mi fa una foca
Sta per carezza
È più volgare di Daddoli
Sta per carezza
È più volgare di Daddoli
Vuol dire Dolcezza
Dolcezza è dolce come un fico
Ho visto un fuoco
La tua foca sfuocata in una distesa nevosa
La tua foto sfuocata di una distesa nevosa.
Dolcezza è dolce come un fico
Ho visto un fuoco
La tua foca sfuocata in una distesa nevosa
La tua foto sfuocata di una distesa nevosa.
(da State Bradi, 1982)
un'Odissea senza Nessuno
http://rebstein.wordpress.com/2008/12/28/lodissea-nella-traduzione-di-emilio-villa/
Emilio Villa cominciò a tradurre l'Odissea nel 1942, ma solo dopo la fine della guerra ne apprestò una prima stesura, pubblicata nel 1964, a cui segui qualche anno più tardi una versione definitiva, ampiamente ritoccata e ripensata. Giudicata immediatamente "stravagante e spropositata" da accademici e universitari, la traduzione villiana mira con puntiglio a ridare luce ai legami profondi tra l'epica ellenica e le culture precedenti, in contrapposizione a quella che il critico chiamava "la baracca immensa dell'immenso commentario europeo", che ha fatto del poema un testo intoccabile e di Odisseo un modello "neoclassico anchilosato sul piedistallo dell'endecasillabo". book
Versione poetica di Giovanna Bemporad
Frutto del lavoro di tutta una vita, la versione poetica dell’Odissea di Giovanna Bemporad stupisce il lettore per la sua meravigliosa leggibilità, per la limpidezza e musicalità degli endecasillabi che, pur nella novità di accenti, lasciano intatte le emozioni del testo omerico.
La ricerca di perfezione formale va di pari passo con l’ansia di un proprio ideale di fedeltà, in un gioco di delicati aggiustamenti che rispondono alle esigenze scaturite di volta in volta dal contatto fra due lingue e due sistemi metrici molto diversi. Ed è sorprendente osservare come i risultati più armoniosi vadano spesso d’accordo con scelte lessicali assolutamente innovative, dando vita a versi che accolgono con disinvoltura parole ed espressioni appartenenti alla nostra quotidianità.
giovedì 2 agosto 2012
A Madison è già autunno.
Scuola Pagliarani
Pagliarani in U.S.A.
Madison
A Elio piacciono le belle ragazze, un po’ decise e con gli occhi intelligenti. E l’allieva di Ballerini, quella che lo segue per la conferenza a Madison, è proprio così. Una studentessa alta e bruna che guida una macchina che sembra un treno, di quelle con letto e frigo. Una garibaldina.A Madison è già autunno. Lettura a casa di Patrick e Grazia. Lago sullo sfondo. Bambini che corrono.Dopo, o prima?, nella libreria. Ma è una libreria speciale. Dove si possono bere cento tipi di cioccolata e cento tipi diversi di the o caffè. Via vai di studenti.Brava. Ma che brava.Anche qui una grande vetrata. Sembra il paese di Peter Pan. Mentre guardo per strada non passa nessuno che abbia più di venticinque anni.
mercoledì 1 agosto 2012
Un gruppo di scrittori
«Quindici è un giornale fondato sulla fiducia interna, non sulla routine professionistica. Un gruppo di scrittori lo ha inventato dal nulla, e io sono uno di questi. Credevamo di poter fare una cosa che allargasse un poco la nostra udienza, e l'abbiam fatta. Abbiamo avuto successo,più di quanto noi stessi speravamo. Il merito non è mio, né del direttore editoriale. Il merito è della. fiducia reciproca che ha sorretto tutti noi. Io stesso, quale responsabile, non ero che un fiduciario del collettivo. Nessuno mi ha tolto la fiducia, e io la conservo da parte mia per tutti i collaboratori. Dunque perché, «sul più bello», ho deciso di andarmene?
È difficile da spiegare, e mi ci proverò. Forse occorrerebbe un lungo discorso, una cronistoria minuziosa. Negli ultimi tempi mi estenuavo, più che a' raccogliere il «materiale», in lotte sempre meno allegre per bloccare le infiltrazioni di materiale oscuro e demagogico. Il mio crescente disagio nasceva dalla sensazione sempre più opprimente di essere entrato, quasi senza accorgermene, neila Ortodossia del Dissenso. Sia chiaro che io sono stato felice di pubblicare nei numeri scorsi certi documenti: le carte rivendicative degli studenti dell'Università di Torino, la teologia della violenza, la protesta dei cittadini di Orgosolo, sono fatti che noi abbiamo portato per primi all'attenzione di una grande cerchia di, lettori, fatti che era giusto parlassero con il loro linguaggio. Ma il materiale di cui è composta una rivista è forse meno importante dell'atmosfera in cui viene proposto. Il passaggio dal documento, o all'argomento, «giusto» al documento, o all'argomento, «facile» avviene in maniera percettibile ma subdola. Comincia il ricatto psicologico della cosa di cui si deve parlare. Il Dissenso diventa una merce che bisogna fornire. Non si ragiona più se non col Dissenso Comune.(..)»
(Editoriale, PERCHE' LASCIO LA DIREZIONE DI « QUINDICI » di Alfredo Giuliani)
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