martedì 23 giugno 2015

Colto nell'orecchio sturato


«E. P. Ode pour l’election de son sepulchre. Tre anni, fuor di chiave col suo tempo, / S’adoperò a risuscitare l’arte / Morta della poesia ; a sostenere / Il “sublime” nel vecchio senso. Ma in errore // Dal principio – no, forse, ma vedendo che era nato / Fuor di tempo, in paese semibarbaro; / Teso a spremere gigli dalla ghianda; / Capaneo; trota a un’esca di miraggio; / / Ϊδμεν γάρ τοι πάνθ’ όσ’ ένι Τροιη / Percepito da orecchi non ostrutti; / Schivò gli scogli per un niente e i mari / Tempestosi, quell’anno, lo trattennero. // Fu sua fida Penelope Flaubert; / Egli pescò per ostinate isole; / Preferì l’eleganza dei capelli / Di Circe ai motti sulle meridiane. // Non toccato dal “corso degli eventi” / Cadde dalle memorie a l’an trentiesme / De son eage; il suo caso non aggiunge / Nulla di nuovo al serto delle Muse».

 Il verso inn greco proviene da Odissea, XII, vv. 189-190 e si può tradurre con “Poiché sappiamo tutto ciò che a Troia larga Argivi e Troiani soffrirono per volontà degli dei” (anche se l’aggettivo larga è stato omesso per motivi di metrica – Pound privilegiava il decasillabo). Sono alcune delle parole che le Sirene dissero a Odisseo per sedurlo e portarlo a schiantarsi sugli scogli. L’emistichio in francese, invece, viene dal Grand Testament (1461) di François Villon.

Scrivere bene
























La poesia dev’essere scritta altrettanto bene quanto la prosa. La lingua dev’essere bella e in nessun modo allontanarsi dalla parola detta, se non per un’accresciuta intensità (cioè semplicità). Non devono esservi parole libresche, niente perifrasi, niente inversioni. Dev’essere semplice come la prosa di Maupassant e dura come quella di Stendhal. Non sono ammesse le interiezioni, non le parole che volano via nel nulla. Ammesso che non si può ad ogni colpo far centro, si almeno questa l’intenzione. Il ritmo deve avere un significato. Non può essere una semplice partenza, senza presa, senza stretta sulle parole e il senso. Niente clichés, niente frasi fatte, stereotipie giornalistiche. Il solo modo di sfuggire a questo è la precisione, che è il risultato di un’attenzione concentrata a ciò che si sta scrivendo. La prova di uno scrittore è la sua capacità di simile concentrazione e la sua facoltà di rimanere concentrato finché non sia arrivato alla fine del suo lavoro, siano due versi o duecento. Oggettività e ancora oggettività ed espressione. Niente code al posto delle teste, niente aggettivi a cavalcioni (come “putridi muschi fradici”). Niente, niente che non si possa in qualche momento, nella stretta di qualche emozione, effettivamente dire. Ogni letterarismo, ogni parola libresca sgretola via un pezzetto della pazienza del lettore, un po’ del suo sentimento della vostra sincerità. Quando uno sente e pensa veramente, egli balbetta le parole più semplici. La lingua è fatta di cose concrete. Espressioni generiche in termini non-concreti sono pigrizia; sono conversazione, non creazione. Il solo aggettivo che valga la pena di usare è l’aggettivo essenziale al senso del passaggio. Mai l’aggettivo decorativo.  

II Concisione, ovvero stile, ovvero dire ciò che s’intende dire col minor numero di parole e le più chiare. Effettiva necessità di creare o costruire qualcosa; di presentare una immagine o più immagini di oggetti concreti, disposti in modo da toccare il lettore. Al di là di questi oggetti concreti si possono fare semplici constatazioni del sentimento sui fatti; come “sono stanco” o “alla morte non può seguire peggiore male”, ecc. Io credo vi debbano essere più, molti più oggetti che constatazioni e conclusioni, essendo queste ultime puramente ipotetiche (optional), non essenziali, spesso superflue e quindi pessime. Ma bisogna che vi sia l’emozione, o la cadenza e il ritmo saranno rapidi e senza interesse. Il compito del poeta è definire e ancora definire finché il particolare alla superficie sia in accordo con la radice nella giustizia. In nessun caso la costipazione del pensiero, sia pure nel particolare, consentirà bella scrittura. Lucidità… 

III Poesia è l’arte di caricare ogni parola del suo massimo significato. 

IV Buttate fuori tutti i critici che usano vaghi termini generici; non solo quelli che usano vaghi termini generici perché sono troppo ignoranti per dar loro un significato, ma quelli che usano vaghi termini per nascondere il significato; e tutti quei critici che usano i loro termini in modo così vago che il lettore può immaginare siano d’accordo con lui o gli diano ragione mentre non è così: col che intendo dire che i loro articoli possono sempre apparire in solide e rispettate riviste senza scatenare una zuffa o provocare le proteste degli abbonati. La prima credenziale che noi dobbiamo esigere da un critico è la sua ideografia del bello, di ciò che egli considera scrittura valida e di tutti, tutti i suoi termini generici. Allora sapremo a che punto si trova. Non potrò mai ripetere troppo spesso o con troppa energia la mia diffidenza (caution) per i cosiddetti critici che parlano tutto intorno all’argomento e non definiscono i loro termini e non sanno dire francamente che certi autori sono una scocciatura maledetta. Fatevi dire da un uomo prima, e con tutti i particolari, quali sono per lui i buoni scrittori: solo dopo ne ascolterete le spiegazioni. 


Ars Poetica di Ezra Pound Tr. di Cristina Campo in La tigre assenza (Adelphi, Milano 1991) 

domenica 14 giugno 2015

Saul Bellow Vs Eva Piccoli

1915 Cento anni di Saul Bellow
1965 50 anni dei libri della lettrice Eva Piccoli
2015 i loro libri alla Piramide Cestia di Roma

[100 anni di Bellow] 

all'angolo si fermo' a guardare la squadra dei demolitori al lavoro. La grossa palla di metallo oscillante andava a colpire i muri, passava agevolmente attraverso i mattoni, ed irrompeva nelle stanze, peso indolente che curiosava nelle cucine e nei salotti. Tutto cio' che toccava vacillava e esplodeva, e si sbriciolava in terra. Ne emergeva una nuvola bianca e silenziosa di polvere di calce. Il pomeriggio stava per finire, e nella zona di demolizione che s'allargava sempre piu' c'era un fuoco, alimentato dallo smantellamento. Moses udiva l'aria, sospinta pian piano verso le fiamme, sentiva il calore. Gli operai, ammonticchiando legna nel falo', vi lanciavano strisce di cornicioni di stucco come fossero giavellotti. Pittura e vernice fumavano come incenso. La vecchia pavimentazione bruciava con riconoscenza - un funerale di oggetti sfibrati. Impalcature racchiuse da porte rosa, verdi e bianche tremavano mentre i camion a sei ruote portavano via le pietre cadute. 

Il sole, che salpava adesso per il New Jersey e l'ovest, era circondato da un brodo abbagliante di gas atmosferici. Herzog osservo' che la gente era schizzata di macchie rosse, e che lui stesso aveva degli spruzzi sulle braccia e sul petto. Attraverso' la 7a Avenue ed entro' nella stazione della metropolitana. Dal crepitio del fuoco, dalla polvere, si precipito' giu' per le scale nei sotterranei, le orecchie all'erta per sentire se veniva un treno, le dita che passavano in rassegna le monete che aveva in tasca, in cerca di un gettone per la metropolitana. Inalo' gli odori di pietra, d'urina, aspramente tonici, la puzza di ruggine e di lubrificanti, avverti' la presenza di una corrente d'urgenza, di velocita', di infinito desiderio, probabilmente collegata alla spinta che sentiva lui stesso, alla propria traboccante vitalita' nervosa (...).
Lascio'cadere il gettone nella fessura e vi scorse tutta una serie di altri gettoni illuminati dall'interno e ingranditi dal vetro. Milioni innumerevoli di passeggeri avevano lustrato coifianchi il legno del torchietto. Ne scaturiva un senso di comunione-fratellanza in una delle sue forme piu' scadenti. Una cosa seria, penso' Herzog mentre passava anche lui. Piu' gli individui vengono distrutti (da processi tipo quelli che conosco io) e peggiore diventa la loro brama di collettivita'. Peggiore, perche' ritornano alla massa agitati, infervorati dal proprio fallimento. Non come fratelli ma come degenerati.

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