sabato 28 dicembre 2013

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(AutoCITAZIONE) Videor è stato, ed è, un modo di stare insieme dei poeti e degli ascoltatori e visori di poesia, si vede chiaramente dai video di Amedeo Marra & soci: una sensibilità al mezzo che faceva sì che un mezzo devastante ed intrusivo come la tivvù non inferisse fieramente sui malcapitati readings, sugli incontri, sugli eventi a cui Videor era chiamata.
Videor ha dovuto abbandonare youtube per l'uso devastante che veniva fatto dai "cannibali" dell'ambiente della poesia romana dei delicati video dell'esperienza di Elio Pagliarani e di noi con lui.
Uno per tutti, anzi due: quei grotteschi filmati-collage sentenziosi e melensi che utilizzano materiali estorti al gruppo di Videor per sentenziare orrendamente sulle virtù letterarie dei poeti dei quali sono piagnoni seguaci da coccodrillo (funebre). Ok, ho detto. Ed ora basta, finiamola con queste ridicole esibizioni di ego asfittici e roboanti, pietà per i media.
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MEDIA PAPERS
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venerdì 1 novembre 2013

Ultimo indirizzo conosciuto

https://www.youtube.com/user/orteseiguana
Commento sul tuo video: [videorlab] Costa e Spatola in redazione
Prezioso documento...
Miniatura 46:16
[videorlab] Costa e Spatola in redazioneDopo il numero 1 di Videor, preparando il secondo. Nella casa-atelier di Adriano Spatola, redazione di Videor la videorivista di poesia diretta da Elio Pagliarani con Nanni Balestrini Corrado Costa Vito Riviello Adriano Spatola

[Funny Logic Video] Elio Pagliarani/Belli Vs Bondioli Osio/Porta



mercoledì 23 ottobre 2013

INCONTRO TRA FRULLATORE E VIDEOTAPE (1985)



1. Con la mia telecamera tascabile avevo filmato il nostro incontro in Pretura, perché è difficile descrivere a parole qualcosa o qualcuno che non ha un esterno. Di questo parleremo dopo.

2. Finirà diciamolo subito, finirà un giorno questo assurdo antropomorfismo della macchina che si identifica col corpo, costretta ad avere un involucro, una carrozzeria, una superficie, che il tatto percepisce come inutile copertura di vuoti, di buchi di niente.
In un minimo incidente stradale si vede bene che la superficie ammacca solo se stessa e la vettura va, ancora a sbrendoli o a cartoccio, ma va.
Si vede bene se un amante geloso sfoga i suoi pugni sul frigorifero, che il frigorifero va, o, semplicemente, se a caffè uno continua a schiacciare la lattina vuota, che c’è sempre un pò di vuoto che resta intatto.
La superficie serve solo per l’occhio e l’occhio riconosce bocca, occhi, denti, dove ci sono tasti, pulsanti, lastre di vetro, bulloni.
In qualsiasi macchinario, anche in quelli sepolti nelle fabbriche sotterranee, folli leggi contro gli infortuni, impongono coperture parodistiche e la parodia passa nel linguaggio, lo confonde e disgrega la conversazione: 
«la bella carrozzeria di quella ragazza» — «il braccio di un carerpiller».
Se le macchine non avessero involucro non se ne potrebbe parlare.
Ora, in Pretura, la ragazza esponeva la sua bellezza, che è tutta interiore.
Non se ne può parlare. Si muoveva agitata e noi possiamo ammirare la sua bellezza solo quando la macchina è ferma.
La scoperchiamo, infiliasno la testa dentro, il dito fra i fili, l’unghia nella valvola.
Vesalio fu il primo a capire il problema. Ma ce ne sono stati pochi e non hanno molto seguito. D’altra parte in qualsiasi letto, l’atto d’amore va verso l’autopsia. La ragazza è ferma. C’è qualcosa di rotto o qualcosa si rompe.

3. Chiamato a vedere cosa succedeva al mio impianto di videotape, che non rendeva l’immagine raccolta in Pretura, il folle esperto, smontò molte cose e fra le altre un vecchio frullatore caparbio, che procedeva a salti. Tutte queste interiora sono rimaste sparse. Il lavoro l’avrebbbe continuato il giorno dopo e il giorno dopo non si è più visto nessuno.
Mi accade spesso di sognare tipi diversi di macchine, che di colpo si slacciano gli involucri, esibiscono i loro eccitanti interni e si mescolano con furia e con passione, dal vivo, unendo le loro fonti di energia. Ma io sono un caso a parte: avrete notato che la psicanalisi non è meccanicistica. E in ritardo sul secolo. In due parole: non c’è un’officina di psicanalisi. Non c’è un solo psicanalista meccanico, da chiamare al Soccorso ACI per i guasti che si verificano in sogno.
L’incontro di un frullatore con una video-rape genera la visione di una macchina visibile solo per successione interiore, abolita ogni necessità visiva di un qualsiasi esrerno.
Forse il concetto di intimità può essere percorso solo in una successione di interni.

4. La mia storia d’amore ormai si agita dentro al frullatore/videorape. Vibrazione per vibrazione la mia storia trasaliva. Si amplificava, con le sue immagini costruiva un unico frappé immaginario e più gli organi del frullatore si addentravano oltre l’involucro della cassetta, più la mia storia di un martino in Pretura con la ragazza che insiste per gli alimenti, ridotti al terzo, escluso il mantenimento, trasaliva oltre in incontri notturni su ampi rerrazzi, chiome d’alberi e musica in Giardini Pubblici — aperti a una miriade di altri amori, insegni- menti nell’ombra, finestre ammorbidite di luci velate.

5. Già adesso — mi si dice — nei sistemi dei robot si adoperano insiemi computativi di due macchine. Insomma una fa da cervello all’altra, forse reciprocamente. Nel prototipo sperimentale del robot integrale sovietico LPI — 2 (dice Vjaceslav V. Ivanov) il sistema di di controllo è basato su un insieme computativo che affianca i calcolatori «ASUT-6000» e «Miusk 32».
Nella mia storia, mentre vedo il videotape che gira inviscerato nel frullatore, non si sa se il frullatore effettua operazioni illogiche con sequenza indiscreta di simboli o se il video-tape elabora blocchi d’informazione complessi o viceversa. Sia che il frullatore faccia da cervello, sia che il nostro faccia da cervello: le immagini vertiginose si accoppiano in una enorme melassa.
La giovane signora con la mia testa si avvicina a me con la sua,.
Mi prende alla mia gola con la mia mano destra e d’improvviso mi bacia con la mia bocca mentre rispondo con il fremito della sua e Giorgio, l’amico abbandonato, vibra fra me e lei cercando io me il sapore di lei e lei cerca in sé il sapore di lui, sapori diversi nel plancton bianco e nero del frullatore, che emulsiona l’io, il tu e il lui.
Non c’è pace. La vibrazione interessa a se stessa e l’amore va avanti a flutti, una marea d’istinto e di repressioni, ricordi, previsioni del futuro, Appena due si attardano per far l’amore, scoppia attorno a loro il branco, l’assemblea e ognuno vuole la sua pane di feconda zione, la sua parte di uova. Un unico sperma ci copre tutti. Pezzi di corpo saltano nelle fauci degli inseguitori, che non rinunciaoo a inseguire e non molleranno mai la parte della mia vita che hanno avuto. Gli appartiene e non mi appartiene più. Perché ognuno sente il dirirtto di portare avanti la vita anche degli altri. E di colpo, anche nei sogni, ti saltano addosso e ti mandano in pezzi.

Corrado Costa

mercoledì 9 ottobre 2013

[biblioteca] il dono del'inesauribilità

[OCR] io sostengo che in ogni attività intellettuale e più importante tornare su poche cose che incontrarne continuamente di nuove..., le poche cose devono avere il dono dell'inesauribilità... non che sia semplice... certo non è che uno inizia la propria vita e si fa un indice dei libri da scegliere. Sono incontri casuali.., del resto, voglio dire, la vita è tutta una serie di circostanze fortuite aiutate naturalmente dall’istinto. Alle volte si mette la mano su un libro giusto al momento giusto. Si dice è fortuna, probabilmente é fiuto, istinto, qualcosa d'altro..., io sono nato in una casa nella quale c’erano molti libri per l’epoca. L’Italia é un paese, soprattutto l’Italia del Sud... se in una casa c’erano tre o quattro libri erano anche troppi. In casa nostra avevamo una biblioteca di circa tremila libri, in gran parte magari inutili, però. Mio padre era medico, però questi libri si erano formati nel tempo... c’era anche un settore letterario, atlanti, libri di architettura quasi nessuno. Ecco, in questo scaffale alle mie spalle ho uno dei libri presi dalla biblioteca di Lauro. E, credo, la prima edizione dell’opera completa di Leopardi, un libro che mi accompagna costantemente. Uno di quei libri che hanno quel cdono dell'inesauribilità... è strano: pur non potendo sostenere che la letteratura possa essere di qualche aiuto all’architettura, perché [leggi tutto]
 
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martedì 8 ottobre 2013

Francesco Venezia ‘Ncopp ’o Vommero..

[leggi tutto]

Guardi, Napoli a me è sempre apparsa... nel modo in cui si denotano, si designano le grandi parti della città da parte del popolo, nella tradizione popolare, mi é sempre sembrata come un grandissimo corpo... mi ha sempre colpito, ad esempio, il fatto che, nella tradizione popolare, il muoversi dentro Napoli e indicato dall'uso di preposizioni particolari. Per esempio in molte città si dice piazza, via, largo. Invece qui si dice dentro, fuori, ’ncopp, abbascio. C’è sempre questa idea del rnuoversi su un corpo. Come lei sa, in dialetto si dice ‘for ’a Caracciolo’, non si dice ‘a via Caracciolo’.
‘Ncopp ’o Vommero..
‘Abbascio ’a Sanità, e cosi via. Questo e importantissimo. Sembra una sciocchezza, ma nell'immaginario popolare Napoli é un luogo dove il muoversi non è legato ad una toponomastica di tipo napoleonico, con strade, numeri civici, ma cornporta appunto il prendere una posizione rispetto al corpo... si fanno dei gesti,
delle mosse che esprimono proprio questo rapporto con un corpo.
Un rapporta fisico.
Si, fisico, fisico. Uscire, entrare, scendere, salire: non e solo il ìsuperare un dislivello, perché ci sono altre citta dove questo aviene, ma si da sempre l’indirizzo, si dice vado a...


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Vede, l'identità di Napoli è basata fondamentalmente su una straordinaria armonia tra geografia naturale e geografia costruita, Napoli ha questo di straordinario. Tante città hanno il mare, ma il mare a Napoli ha un rapporto di compenetrazione con la parte artificiale della città, è questo il fatto straordinario. Lei sa che in architettura è affascinante quando io posso vedere da uno spazio interno un alro spazio interno attraverso uno spazio esterno. Questo si ottiene solitamente con una forma ad esedra. Io, stando nell’interno di un edificio, vedo l’altra persona al di là di una finestra, ma attraverso uno spazio esterno. Ecco, a Napoli questo meccanismo, che in arhitettura é molto fruttuoso, coincide con la forma stessa della cità. Io ho sempre la possibilità di guardare... e quello che avviene anche nelle città di fiume, che sono bellissime perché ho sempre la possibilità di mirare una parte della città dall’altra sponda, con il collegamento dei ponti. Napoli è una citta di mare con un golfo immenso, perché il golfo di Napoli e immenso... ma questo rapporto è continuarnente attivato, attivato qui, attivato anche ai Campi Flegrei, basta vedere la sequenza di Capo Miseno, Procida, Ischia. Questa mi sembra la vera peculiarita di Napoli.

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lunedì 30 settembre 2013

OCR [Orazio Converso Reloaded] La galassia Gutemberg

abbattersi su di lei in una nazione di uomini coraggiosi, in una nazione di uomini d’onore e di cavalieri. Pensavo che diecimila spade sarebbero balzate dai foderi per vendicareanche un solo sguardo che minacciasse offesa verso di lei. Ma l’eta della cavalleria e pas-sata; le é succeduta quella dei filosofastri, degli economisti, dei calcolatori; e la gloriad'Europa si e estinta per sempre. Mai, mai più vedremo quella generosa lealtà verso ilrango e il sesso, quella Hera sottomissione, quella dignitosa obbedienza, quella subordina-zione del cuore, che teneva in vita, perfino nella stessa servitu, lo spirito di una eccelsa libertà. La grazia impagabile della vita, la difesa economica delle nazioni, la custode delsentimento virile e dell’eroica impresa, e svanita! li svanita quella sensibilita di principioquella carita di onore, che sentim una macchia come una ferita, che ispirava coraggiomentre mitigava le ferocia, che nobilitava ogni cosa che toccava, e sotto la quale il viziostesso perdeva meta della sua malvagita, perdendo tutra la sua volgarità.


Nel brano che segue di William Cobbett, tratto dal suo A Kaur? Residence inAmerica (1795), il freddo sassone esprime la sua sorpresa di fronte al nuovo ti-po di uomo costruito laggiil dalla Cultura tipografica:
Ogni contadino e più o meno un leltore. Non vi é alcun atfenfo, aleun dialetto di pronuncia. Nessuna classe simile a quella che i Francesi chiamano puysannerie, termine derogatorio che negli ultimi anni Firreligioso diffondersi delle obbligazioni ha applicato all’intera massa della parte pin utile del popolo d'lnghi1terra, coloro che lavorano e che si hattono in bartaglia. E, quanto agli uomini che naturalmente formerebbero le vostre conoscenze, essi, so per esperienza, sono uomini tra i piu gentili, schietti e ra-
gionevoli, rispetto a quanti mediamente possano trovarsi in lnghilterra anche dopo aver esercitato una certa scelta. Essi sono rutti ben informani; modesti senza timidezza; sempre liberi di comunicare quello che sanno e mai vergognosi di riconoscere quello che ancora debbono imparare. Non li sentiresti mai vantarsi dei loro possedimenti; né mai li sentiresti lamentarsi della loro indigenza. Tutti quanti sono dei letturi fin dalla giovinezza; e sono pochi gli argomenti intorno ai quali essi non sono in grado di conversare, siano essi di natura politica 0 scientifica. Ad ogni modo essi ascoltano sempre con pazienza. Credo non mi sia mai capitato di sentire un americano di nascita interrompere un altro uomo menrre parla. La loropacatezza e freddezza il modo ponderata con cui dicono e fanno ogni cosa e la lentezza e il riserba con cui esprimono il loro assenso; queste caratteristiche vengono a torto attribuite a una mancanza di sentimenzo. Deve certo essere una storia dolorosa quella che fara apparire una
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lacrima agli occhi di un americano; ma qualsiasi storia, un po' gonfiata, gli fara porre mano alla tasca, come gli ambasciatori dei miserissimi paesi di Francia, d'Italia e di Germania possono pienamente testimoniare.

357. E turravia per un lungo periodo non saprai che cosa fare giacché mancano qui le wolte rirpaste della lingua inglese, e il tono deciso del parlare inglese. La ...

lunedì 16 settembre 2013

Arrigo Lora Totino


Semplicemente splendido...Arrigo Lora Totino e' un genio a 360°....ha dato e continua a dare un contributo incredibile di cultura ed arte moderna al Mondo intero....

fanno cinquanta

post-mail "Siamo una rivista, Videor, con Elio Pagliarani dal 1987 in video e Corrado Costa Adriano Spatola Amelia Rosselli Alfredo Giuliani Edoardo Sanguineti Vito Riviello Giorgio Celli Nanni Balestrini, tra altri, poi una web factory che ne conseguirà. Nel lavoro di produzione di Videor c'è molto del Gruppo 63, è vero.
https://videor.it [timelines]
https://www.facebook.com/scuolapagliarani [socialmedia]
http://youtu.be/GYitmHoE-W0 [n°1 di Videor, 1988]
(...)  nota. una curiosità sull'arte totale http://www.youtube.com/watch?v=CP1c8AqRpeM "

http://mariangelaguatteri.wordpress.com/2013/04/02/corrado-costa-la-sadisfazione-letteraria-literary-sadisfaction-benway-series/

domenica 8 settembre 2013

akríbeia

 La voce colta acribìa significa «esattezza, meticolosa precisione (in una ricerca, in un lavoro filologico e simili)». La definizione è tratta dal Vocabolario della lingua italiana Treccani, che indica nel greco akríbeia ‘precisione’ l’origine del vocabolo italiano. In italiano, peraltro, l’antica parola akríbeia viene ripresa dai dotti studiosi di filologia soltanto verso la fine dell’Ottocento. Forse acribia ci è giunta transitando prima attraverso il tedesco Akribie

Aldo Tagliaferri, Corrado Costa «una sorta di Eric Satie» dell'avanguardia
Parole per una utopia anarchicamente garantita
Niva Lorenzini
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«C’era una volta…». Sì, c’è stato un tempo, neppure troppo remoto – tra gli inizi degli anni Sessanta e la fine dei Settanta – in cui si credeva possibile rifondare il mondo, trasformando un movimento di idee in moto di rivolta contro il conformismo, la sclerosi, le disuguaglianze, la violenza di una società basata sullo sfruttamento, che marginalizzava il dissenso, espropriava il vissuto. Se ne legge testimonianza in una rivista ricomparsa da poco, davvero preziosa per chi, per ragioni anagrafiche, non avesse potuto seguire dal vivo dibattiti e contrasti, tensioni e contrapposizioni. «Quindici», riproposta ora in antologia da Feltrinelli per le cure di Nanni Balestrini, ne dà articolato riscontro: e davvero conserva piena efficacia, nella sua totale inattualità, quel dibattito tra ragioni della letteratura e della politica, della militanza e delle controculture che si sovrapponevano e convivevano, appassionate ed estreme.
Crudeltà come appetito di vita
Volevamo la luna, intitola Cortellessa una sua densa e lucida postfazione, in cui passa in rassegna temi e modi di quel dibattere, siglato da letterati e giornalisti, artisti, architetti, scienziati, esponenti dell’antipsichiatria, che rispetta pienamente le intenzioni indicate nell’editoriale da un Andrea Barbato misurato e caustico: puntare al «parziale» e al «contraddittorio», promuovere il dubbio e il disordine, contro l’ordine delle certezze. E si tocca con mano una distanza, una separatezza, se non proprio uno spaesamento, con tutte le conseguenze del caso.
Ma non di questo intendo parlare, in una stagione come la nostra che di Sessantotto, della sua complessità, si sta variamente occupando con indagini rigorose, ma è anche chiamata a sensibilizzarsi tempestivamente, con urgenza, per ciò che intorno accade di pericoloso, di irrimediabile, qui e ora. Voglio dedicare piuttosto questa breve nota a due collaboratori di «Quindici», per niente occasionali, dal momento che il primo, Adriano Spatola, ne è redattore fin dal primo numero, insieme con Giulia Niccolai e Letizia Paolozzi, e il secondo, Corrado Costa, ne è collaboratore fisso, perlomeno all’inizio, e ne influenza una linea sadiana e artaudiana: quella della Letteratura della crudeltà (una crudeltà come appetito di vita, rigore cosmico, necessità implacabile), se ci si consente di sottrarre il titolo a uno scritto di Edoardo Sanguineti comparso sul numero d’esordio, insieme con una provocatoria pagina del poeta-avvocato Costa, Pornolaroid (seguita, nel secondo numero, da un’altra, Neosade, non meno irriverente, a proseguire in qualche modo la linea di una letteratura che pratichi – lo indicava Sanguineti – la «categoria del cinismo violento»).
Nelle zone del non detto
Ciò che Spatola e Costa si propongono di attuare, in modi differenziati nell’applicazione ma non lontani nelle intenzioni, è la destrutturazione del linguaggio, l’introduzione di un «disordine» controllatissimo, eppure esplosivo ed eversivo, che penetra tra le giunture della sintassi, libera la lettera dallo schema grafico e tipografico e la poesia dalla separatezza che le preclude interferenze con le arti, il teatro, la musica, il cinema. Entrambi vogliono dilatare lo spazio della scrittura, esporla al contatto con il momento visivo e con la voce, con l’esecuzione, ritenendo la «poesia totale» l’unica maniera – lo scrive Spatola su «Quindici» sotto il titolo Poesia, apoesia e poesia totale – di «usare positivamente e concretamente, nella direzione di una utopia anarchicamente garantita», l’esperienza del linguaggio. Ed entrambi vogliono poi provocare la «dicibilità» investigando anche le zone del non detto, delle rifrazioni, del doppio, fino a rendere udibile, visibile – lo fa soprattutto Costa – il vuoto e l’afasia,
Inutile nasconderlo: non li si conosce, Spatola e Costa, se non in nicchie di affezionati dell’avanguardia e di estimatori delle sue propaggini emiliane, localizzabili tra Reggio Emilia e Parma, nella cittadella perimetrata del Mulino di Bazzano, sorta di corte rurale protetta di proprietà della famiglia Costa sulla sponda parmense del fiume Enza. Lì, in un isolamento ancestrale (il telefono a qualche chilometro di distanza), Adriano Spatola e Giulia Niccolai si ritirano a conclusione dell’esperienza di «Quindici»: e tengono, sull’ampio tavolo di cucina, tra profumi di minestrone e spezzatino e aromi di colla e carta, riunioni redazionali del marchio editoriale Geiger, discutono i numeri di «Tam Tam», «Baobab», «Cervo volante», fondano una minuscola tipografia artigianale autogestita, sacerdoti laici di una pratica del libro-manufatto condivisa da amici dell’Italia e del mondo.
Fin qui la cronaca, gli aneddoti, ricostruiti con discrezione e affetto da Eugenio Gazzola nel volume fresco di stampa «Al miglior mugnaio». Adriano Spatola e i poeti del Mulino di Bazzano, uscito presso Diabasis (pp. 215, euro 17): a quelle pagine rimando, così attente nel definire il sapore del luogo e lo scandirsi del tempo in cui prende corpo una scrittura che a poco a poco viene svelata e illustrata, dallo sperimentalismo degli inizi affidati alla rivistina «Bab Ilu» (due soli numeri nel ’62) o dalle prove di Zeroglifico, iniziate nel ’65, che si collocano tra poesia concreta e poesia lineare, azzerando il valore semantico della lettera per consentirle nuove operazioni di rimontaggio, fino alla dilatazione della parola oltre i confini del soggettivo e il perimetro della pagina, per affrontare l’«urto dei nuovi frammenti», da Diversi accorgimenti (1975) alla Piegatura del foglio (1983), con le allegorie da fine della storia che le si connettono.
Non è insomma solo l’autore di Verso la poesia totale (1969), Spatola, o lo sperimentatore (il poeta visivo) che si pone al confine tra letteratura e arte, o l’esecutore (il poeta corporale) di performances divenute celebri per le reiterazioni di parole (celeberrima Aviation aviateur…): è poeta «senza aggettivazione», che il testo di Gazzola aiuta a riscoprire nella sua intensità, fatta di antimelodia e ribaltamenti tematici, ritmi giocosi e scacco della rappresentazione, fino ad accettare la sfida del silenzio o ad affidare al corpo, alla sua sola presenza, l’atto del comunicare.
Tacere, scriveva Sartre, non è «essere muti», ma rifiutarsi di parlare, e dunque «parlare ancora». Lo ricorda Simonetta Bondoni in una pagina dedicata questa volta a Costa, alla sua «cosciente afasia», all’interno di un volume curato ancora da Gazzola che ne restituisce la fisionomia a tutto tondo (Corrado Costa, The complete Films. Poesia Prosa Performance, Le Lettere, collana «fuoriformato», pp. 352, euro 35, con un dvd di Daniela Rossi). Proprio il poeta-avvocato (difensore di Tondelli in occasione della denuncia di Altri libertini) si rivela, di pagina in pagina, il massimo esponente di una scrittura dello sdoppiamento, della perdita senza recupero di una parola abusata. Nel rovescio, nel «retro», va indagato, per Costa, il senso abraso: ed è davvero straordinaria la sua capacità di rendere fisica, attraverso la negazione, la concretezza di ciò che non viene pronunciato, con la levità eversiva e l’ironia di un surrealismo giocoso, da patafisico che smaschera i perbenismi e gli usi strumentali del linguaggio.
Un «signore degli gnomi», chiosava con la consueta acribia critica Alfredo Giuliani ricordandolo sulla «Repubblica» il 12 febbraio 1991, a tre giorni dalla morte: una «creatura leggera» che si dilettava «a scrivere, a vivere, con grande intelligenza, sensibilità, compostezza, ironia».
Un grande dilettante
Auspicava, Giuliani, che qualcuno raccogliesse in volume tutte le sue poesie per conservarne – scriveva – «le scintille, il garbo spiritoso, le malinconie festose». 
È stato fatto. E fa bene al cuore rileggerlo e riascoltarlo, il poeta dello Pseudobaudelaire (1964), delle Nostre posizioni (1972), di The Complete Films (1983), «fool amabile e inaffidabile», secondo Cortellessa: poeta e basta, da apprezzare nell’irriducibilità del suo volerci convincere, «testoni» che siamo, a sollevare la superficie, per scoprire, insieme con l’insopportabilità delle «ferite narcisistiche», il rovescio delle apparenze (l’«enigma della vita, l’assenza, il buco al cuore che ci portiamo dentro», scrive Giulia Niccolai).
Rileggerlo come «grande dilettante», saggista, vignettista, scrittore di teatro, per cogliere quel suo «vuoto lasciato pieno» (così Balestrini nella poesia A Corrado) e cautelarci intanto dalle semplificazioni, dall’omologazione. Parliamone, di Costa e di Spatola, perché non è tempo di clandestinità per il pensiero.
__________
Articolo apparso su Il Manifesto mercoledì 14 maggio 2008

martedì 20 agosto 2013

Convideo presenta..

Premi tab per cercare

In queste condizioni, come distinguere
l’arte dalla realtà? Attraverso l'estetizza-
zione del mondo si rischia, da un lato, di
ridurlo a illusione (a spettacolo nel senso
di Debord o a simulacro nel senso di Bau-
drillard), dall’altro, di lasciar fagocitare
senza residui l’opera d’arte dalla realtà
extra artistica. 

giovedì 18 luglio 2013

OGGETTO 2001

L'aspetto forse più curioso di qualsiasi tipo di interfaccia digitale, appartenga a un particolare sistema operativo o a un'applicazione specifica, è che essa cerca di rappresentare nel proprio spazio operativo la presenza del visitatore. Qui ricomincia la storia, o per meglio dire, il dramma, del lettore, che non è più un «tu» come voleva Calvino, ma un «id», un vettore, un segno, la presenza oggettivata in fabula di un personaggio ridotto ai minimi termini. Dopo la diffusione universale delle due più geniali invenzioni di Douglas Engelbart, la finestra e il mouse,1 questa presenza minimale si è ulteriormente complicata: il visitatore si trova rappresentato in due forme, diviso nei due segni mobili del cursore e del puntatore. Ovvero viene scomposto nelle sue due componenti essenziali: atto e potenza, stasi e processo. Il puntatore, che muta di forma, che è sensibile agli oggetti che incontra e li trascina in qualche morbida trasformazione, rappresenta la nostra distanza, il poter fare e il saper fare, il ricercare, l'esser fuori. Il cursore, che lampeggia pedissequo, o che evidenzia un oggetto facendolo diventare blu – colore cristianamente spirituale, ma giottescamente reale – mostra dove siamo, non dove potremmo essere, quale oggetto abbiamo sotto mano e non come potremmo usarlo. Rappresenta il nostro essere dentro, la nostra «località» virtuale, il nostro lasciar segno ed essere segno.

In un certo senso cursore e puntatore sono le due metafore del nostro duplice modo di usare il computer, che è costitutivamente, e indissolubilmente, esperienziale e riflessivo, immersivo e indiretto. Diversi studiosi, con definizioni e prospettive differenti,2 hanno indicato questa duplice modalità di partecipazione al mondo digitale: l'interattività può essere immediata, plastica, corporea, mimetica, e quindi richiamare a una sorta di unità di tempo, di luogo e di azione che coinvolge emotività, propriocezione, decisione; oppure disporsi su molti piani, dividersi in tempi, spazi e intenzionalità differenti. In quest'ultimo caso diviene asincrona, acquista distanza, si rende molteplice, e implica scelte e dimenticanze, interruzioni e divagazioni, attese e ritorni.
Nello strumentario digitale ci sono infatti, a vari livelli, molti altri simboli, segni o sintomi dell'essere–dentro e dell'essere–fuori. Basti pensare allo schermo e alle finestre: un quadro che include altri quadri. Lo schermo è un vecchio sistema di incorniciamento, che ha ereditato alcune delle forme e delle funzioni del quadro dipinto. Delimita e rappresenta uno spazio altro in una superficie bidimensionale e in una scala differente rispetto allo spazio ospitante.3 Con il cinema lo schermo si trasforma: pretende di sostituirsi allo spazio ospitante, cresce di dimensione, diventa dinamico, e risucchia l'attenzione. L'idea è ora che sullo schermo accada qualcosa, che vi abbiano luogo eventi. Con la televisione quella superficie divenuta mobile e attraente ridiventa privata, ridiventa «da camera». Con il computer, infine, diviene un luogo dove il privato può rovesciarsi in pubblico e viceversa, in una specie di osmosi carnevalesca. Ma sempre, in tutte le sue metamorfosi, lo schermo mantiene i caratteri di bordo, di soglia, di confine, di porta esterna, di stipite che ricorda a chi lo guarda di essere fuori. Dello schermo del computer possiamo regolare la risoluzione senza necessariamente influire sulla costituzione digitale di ciò che esso mostra, scegliendo tra le modalità pittoriche del «ritratto» e del «paesaggio». E inoltre lo schermo espone le interfacce, incornicia le cornici. La finestra invece è inclusa, è dentro: quando è in primo piano, e attiva, rappresenta il visitatore non meno del cursore, ma ritagliandone lo spazio operativo sullo schermo. La finestra è un cursore «di area», inventato per permettere la compartecipazione e la condivisione di uno stesso ambiente da parte di più persone. Ha più del corridoio, in realtà, che della finestra: può contenere entrate, strumenti e oggetti, dà accesso a un interno ulteriore, anche quando si fa luogo di un dialogo con un altro computer e con le persone che ci stanno dietro, o quando permette un accesso remoto, che è sempre un entrare, un logging in. E di fatto ci si può imbattere, in certe modalità d'uso, come ad esempio la chat, nel cursore altrui.
I rapporti tra queste due semi–entità, tra queste due modalità d'essere, in realtà, non sono che l'epifenomeno di una complessità profonda, che non si mostra in superficie, ma di cui la superficie è in un certo senso la prova di verità. La superficie sembra più importante dei «dati» non per meri motivi di usabilità e di comunicazione, ma per motivi di strutturazione cognitiva, di inveramento e uso culturale di quei dati. Le superfici si moltiplicano, e si fanno struttura, racconto, argomentazione, schedario e teatro.

Se nello spazio attivo di quelle superfici i due aspetti che si sono descritti convivono, ovvero se nel nostro uso del computer si alternano stati e processi, se la nostra presenza si divide e si contempera, se usiamo dispositivi di entrata, di uscita, di collegamento, di determinazione spaziale, di scelta di opzioni, di interrogazione, di bricolage, siamo già all'interno di ciò che si può definire, in senso ampio, ipertesto. Qui si propone l'ipotesi che l'ipertestualità, e non il database, sia la modalità dominante, o, per meglio dire, modellizzante del mondo digitale nel suo complesso.4 La strutturazione e la configurazione ritmica, spaziale, simbolica e pragmatica delle superfici (delle interfacce) sembra essere la logica che tiene insieme, coordina e permette un nuovo tipo di discorsività, cioè di organizzazione e costruzione delle nostre rappresentazioni e descrizioni del mondo: una discorsività architettonica, dotata di caratteri morfologici già abbastanza delineati, la quale, pur non dando luogo a prodotti o manufatti altrettanto individuabili nelle loro funzioni e nel loro ruolo, sembra candidarsi ad assolvere certe precise funzioni culturali e sociali.
In effetti, se ci chiediamo con che cosa, in realtà, abbiamo a che fare, quando mettiamo le mani sul computer, con che ordine di oggetti, di là dalla contrapposizione di ipertesto e database, davvero ci mancano i parametri per una individuazione. Sicuramente sappiamo che il carattere di «memoria pragmatica» del computer sta crescendo a dismisura rispetto ad altre funzioni più antiche: quella di calcolo, che tende a essere dimenticata (chi chiama più il computer «calcolatore»?), che costituisce per così dire il cervello limbico dello strumento; e quella comunicativa, che comunque si è trasformata ed è sempre gremita di oggetti intermedi tra un comunicatore e l'altro, di un fare insieme, di un manipolare documenti, che non è più semplicemente comunicare, ma non è nemmeno il mezzo divenuto messaggio: è invece qualcosa al tempo stesso di relazionale e di estremamente etero–referenziale, che potrebbe chiamarsi con–vivere, community without propinquity. Infine, quel che rimane, quel che si apre ancora a un grande sviluppo, è la memoria operativa, corticale, della rete. Ovvero, in ultima analisi, la sua ipertestualità.

La forma ipertestuale spinge a una armonizzazione di tre modelli di raccolta, elaborazione e presentazione del sapere: enciclopedico, argomentativo e narrativo. Sono in fondo i tre tipi di discorsività che dominano ancora il nostro universo cognitivo. Ma non basta: essa poi recupera altre forme, mimetiche, iconiche, ludiche, deittiche, diagrammatiche. E infine sviluppa la capacità di pensare e rappresentare contesti plurimi, ibridi, stratificati, fatti di numeri e di corpi, e di spazializzare la loro relazione. Tutto ciò è molto diverso e molto di più di un database, così come è molto di più di unvideogame. Ma è anche più della digitalità stessa.
E proprio osservando alcuni frammenti di questa discorsività realizzata, quelli meglio riusciti, se ne ha la precisa impressione. Sarebbe difficile ad esempio descrivere Il cane di terracotta di Camilleri5 in versione digitale come un «database» oppure come un «videogioco». Certamente è altro. È un ipertesto che coordina e chiama a sé molte funzioni autoriali: un disegno molto accurato, un'esecuzione del testo altrettanto efficace, la sceneggiatura, l'animazione, gli inserti documentali, le musiche originali. Tutto ciò comporta anche aspetti di archiviazione e di gioco, ma sarebbe comunque inesatto mettere in primo piano solo questi ultimi, vista l'armonizzazione particolarmente felice con l'insieme. Così tuttavia definisce l'ipertesto Michael Heim: «From the computer science point of view, hypertext is a database with nodes (screens) connected with links (mechanical connections) and links icons (to designate where the links exist in the text)».6 Sarebbe come dire che il libro è un insieme di caratteri mobili. È un riduzionismo che a volte può essere efficace, ma di cui, a quanto mi sembra, ora non abbiamo affatto bisogno.
Spesso, in effetti, il progetto di un'interfaccia suggerisce più idee sulla costituzione di una base di dati di quante non ne suggerisca la strutturazione di una base di dati riguardo alla configurazione dell'interfaccia. La logica ipertestuale (comporre, delimitare, strutturare, collegare, simulare) impone un rapporto continuo con l'esterno, ha qualcosa di sperimentale, che sembra perfino travalicare il dominio retorico e di mercato. È una forma di adattamento aperto al reale. E perciò è anche, per natura, creativa.


È provato, per fare un esempio su larga scala, che il Web – con la sua logica e il suo funzionamento – abbia influenzato lo sviluppo di database orientati all'oggetto, rispetto ai semplici database relazionali. Un esempio classico, invece, di database che ha determinato – forse troppo – lo stile e la costituzione della superficie, cioè dell'interfaccia, è la LIZ di Eugenio Picchi e Pasquale Stoppelli. Ma di là dalla casistica nostrana, la maggior parte dei manufatti digitali soffre o di uno scollamento delle ragioni dell'interfaccia da quelle della banca dati, o di un'apposizione improvvisata di un'interfaccia gradevole su un database di tutt'altra natura, o, quel che è peggio, della presenza di un'interfaccia gradevole sopra il nulla. Dovrebbe essere ciò che vogliamo ottenere a guidare l'architettonica complessiva di un manufatto digitale, ma il fatto è che non è ancora per nulla chiaro quello che vogliamo ottenere. Allo stesso modo è l'uso culturale che vogliamo fare di un testo che ci può dire come codificarlo, ma ci vorrà forse un secolo per assimilare e comprendere quell'uso possibile, e intendersi sulle ragioni, sulle convenzioni e sulle modalità della cultura digitale. Eppure, se ci sono certezze, riguardo agli oggetti digitali, queste sembrano riguardare una sorta di morfologia, metodologia e fisiologia del pensiero. Potranno cambiare i supporti: il mondo digitale è anzi alla ricerca disperata di supporti che offrano maggiori sicurezze, in termini di durata e stabilità, rispetto a quelli attuali, del tutto inaffidabili; potranno cambiare i canali, attualmente lenti e primitivi; ma certe forme di base sembrano ormai acquisite, così come certe funzioni fondamentali che permettono di «agire» i nuovi tipi di testualità. E inoltre sembrano acquisiti certi meccanismi, certe procedure, certi stili che costituiscono una forma generale del connettere, dell'interrogare, e del disporre: l'ipertestualità sta creando una nuova forma di spazialità culturale, ovvero un luogo dove muoversi nella doppia modalità che si è descritta paradigmaticamente come presenza simultanea di puntatore e cursore.


Le interfacce liquide che si stanno sperimentando ora, a partire da «Aqua», nuovo ambiente di Apple, o certe ambientazioni Flash dove il contesto dinamico si trasforma al passaggio del visitatore, probabilmente tenderanno ad annullare la scissione tra cursore e puntatore, contrassegno fenomenico dell'ipertestualità: il puntatore ridiverrà una presenza più piena, più operativa: costituirà quasi una sorta di «soggettiva» tattile, come avviene già in molti giochi elettronici. Ma se solo la liquidità si interromperà, se si può dir così, un solo istante, allora si sarà di nuovo calati in un ambiente ipertestuale. L'ipertesto è una logica che governa e sorregge molti generi e forme differenti, e possiede una grande forza inclusiva.
Se il semplice fatto che il visitatore sia rappresentato, sullo schermo, da un alter ego virtuale o da due fa la differenza tra scrittura e scena, tra ipertesto e realtà virtuale, è anche vero che l'ipertestualità è una forma di scrittura che contiene la scena, e in certa misura la realtà virtuale. Sembra lo strumento più efficace inventato dall'umanità per permettere l'accostamento non osmotico di differenze.

http://www3.unibo.it/boll900/numeri/2001-i/

cultura e il sistema “muto” di comunicazione

Rivista che non è oggetto di spoglio e segnalazione

Il pittore e lo scrittore sanno bene che l’essenza della loro arte sta nell’offrire al lettore, all’ascoltatore, o allo spettatore dei segni rappresentativi scelti convenientemente, che siano non soltanto coerenti alla struttura degli eventi descritti, ma anche compatibili con al cultura e il sistema “muto” di comunicazione propri del loro pubblico. 

lunedì 8 luglio 2013

i pronomi di persona

Gadda scoppia in un’invettiva furiosa contro il pronome io, anzi contro tutti i pronomi, parassiti del pensiero: «… l’io, io!… il più lurido di tutti i pronomi!… I pronomi! Sono i pidocchi del pensiero. Quando il pensiero ha i pidocchi, si gratta come tutti quelli che hanno i pidocchi… e nelle unghie, allora… ci ritrova i pronomi: i pronomi di persona».

giovedì 4 luglio 2013

Estate (postume)

«nessuno / dell’ordine dell’universo m’ha insegnato / ad amare la sua natura grande / e umile. Ho offeso con la mia stupidità / la legge della vita...».
Beppe Salvia, 1981

sabato 15 giugno 2013

[textrinae] se era così intelligente

Mi dicevo che i borghesi  - nella tipologia non c'erano i proletari, ma gli artisti a competere con loro - erano quel tipo d'uomo che vive come fosse immortale. Così quando lessi "Se era così intelligente perchè è morto" di giallo di Kevin Roberts (Saatchi & Saatchi) trovai una verifica fondante che ora rimetto, non la sola! «In effetti, (..) In occidente invece prevarrà un modello misto: internet, tv e blackberry. L'importante è che ci sia uno schermo, dove leggere le news e guardare i filmati, e ora si sta aggiungendo come dicevo pure lo schermo dell'ebook. Così le reti televisive e i giornali finiranno con l'ingaggiare una gara a chi avrà saputo meglio cogliere le possibilità sinergiche e le interazioni fra questi media. Anche le campagne pubblicitarie dovranno adeguarsi, inventarsi qualcosa di nuovo, di sorprendente, di tecnologicamente evoluto». Ritrovavo anche il mio Convideo del 1990.

textrinae

(mailweb) editor ho disdegnato quasi sempre l'analisi pensosa e la possanza del metodo; ho puntato sulla profezia, che però è l'esatto contrario della predizione: il profeta vede quello che ancora non c'è, salta a piè pari le aspettative du peuple (people), s'incarica di trovare e dire una via d'uscita dall'esistente.
un editor-profeta è una contraddizione in termini, se si considera l'editor nell'accezione anglosassone del termine, cioè un cuciniere di cose persone situazioni per rendere il tutto commestibile.
l'editor che io interpreto, invece, conta sull'irriducibilità dell'umano alle logiche dei macchinismi sociali, psicologici, politici del dominio

zapping videor



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l'arciere

performed 1988 (january 19) videor by Corrado Costa (Per il poeta non c'è nessuna biografia - a tutela della sua immagine. La società ha fissato una soglia, un limite che serve solo ad entrare e dal quale il poeta vuole solo uscire. Non si vuole spostare la parola oltre il limite del presente. Non si vuole futuro per dimenticare ciò che volevamo in passato. Corrado Costa, 1986, al suo editore)
Justin Romano
Grandioso! Commento collegato

martedì 11 giugno 2013

Tra riga e follia

I will not sanctify my own opinion:
so many times I saw a slender hair
at our soul as only separation 


Non santificherò 
la mia opinione:
spesso ho veduto 
un esile capello
nel nostro petto 
separare mari.

Tra consapevolezza ed incoscienza,
tra dedicato amore e insofferenza,
tra conoscenza e sensi d'ignoranza,
tra florida salute e la caduta,
tra il liscio fare e la stagnante depressione,
tra faro e perdizione,

tra opportunismo e solidarietà,
tra adulazione e concavo rispetto,
tra sole come veglia e sonno presso luna,
tra l'incubo franante e magica poesia,
tra vita e morte
tra limpido diamante e polverosi neri;

tra più di uno zodiaco bipolare
di smisurati mari scissi nella testa,
nel reputato fatto, nel suo comportamento,
si perdono confini, affiorano emulsioni,
ci si ritrova con un trasparente velo
solo discrimine appena postulato

nell'umano petto
dall'attesa.

giovedì 23 maggio 2013

Poesia13, cantiere aperto di ricerca letteraria

Mini cronaca di un evento “memorabile”


La tre giorni reatina di Poesia13, cantiere aperto di ricerca letteraria

Buona parte del gruppo degli escargottini l’ ho conosciuto a Roma verso la fine degli anni Novanta e l'inizio dei nuovi in occasione della manifestazione - reading Voce! organizzata dalla biblioteca Alessandrina, evento tenutosi presso l’Aula Magna dell’Università La Sapienza di Roma, poi ripetuto l’anno seguente sulla terrazza del Rettorato. Preciso, li ho conosciuti in voce e per voce, dal momento che essi frequentavano da tempo casa Pagliarani, alcuni come Tommaso Ottonieri e Sara Ventroni essendone assidui.



Tommaso e Sara fornirono un elenco di poeti giovanissimi ed emergenti fra cui ricordo Florinda Fusco e Giovanna Marmo, un allora, per noi, sconosciuto Vincenzo Ostuni, una conosciutissima Lidia Riviello. Elio Pagliarani seduto al centro del palco dell’Aula Magna orchestrò la riunione preceduta dalle lezioni magistrali di Remo Rufini e Vincenzo Cappelleti. L’idea che muoveva Voce!  era quella di attuare, per voce, una rottura di ambiti dove voce e gesto della parola poetica  e voce della parola didattica si incontrassero  realizzando empatia di ascolto e accrescimento di vitalità.
Eravamo alle porte del terzo Millennio, la cultura digitale aveva operato nelle scelte  pioneristiche della biblioteca che dirigevo, Elio Pagliarani col suo metodo, la sua scuola, centrata sull’interazione e sull’ inesemplare esemplarità del discorso linguistico e della persona –  caratteristica di cui era perfettamente consapevole come, fra l’altro, emerge nelle pagine del Promemoria – appariva, ed era, uno dei pochi, forse l’unico?, in grado di poter fronteggiare il cambiamento catalizzando e centrifugando l’esperienza poetica  e facendo superare, nell’ascolto, guadi che potevano sembrare – e lo erano – insuperabili: il linguaggio della scrittura e il linguaggio accademico.
Voce! quindi fu. Voce declamante e performativa. Nei miei ricordi assertiva e tranquillamente sicura della propria funzione e ruolo. Con Pagliarani che batteva il tempo con la mano assecondando e incoraggiando ritmi e sottotracce ritmiche, imprimendo col gesto direzioni di marcia.


Poi è stato Escargot con la lettura, la riflessione sui testi del gruppo, all’interno del gruppo, negli ambienti dell’Esc di via dei Volsci, e ora, più di vent’anni dopo, questoPoesia 13, Cantiere aperto di ricerca letteraria tenutosi in una affannatissima tre giorni nell’ospitale complesso delle Officine della Fondazione Varrone.
Il colpo d’occhio, dovrei meglio dire il colpo d’orecchio, citando “il verso secondo l’orecchio” ricordato dal Pagliarani traduttore di Charles Olson, al di là delle differenze fra i singoli che si dispongono su una linea graduata, marcata anche dalle differenze anagrafiche, è quello di un cambiamento nella postura della voce, da una esibizione performativa esplorante senso e soggetto ad una lettura bloccata e scarnificata.
Ma non si può certo semplificare giacché le sfumature fra i diciannove diversi poeti e le differenze fra le loro scritture sono davvero tante: si va dalla voce centrata e significante di Ventroni, Fusco, Calandrone, Policastro, Marmo e Ostuni al voluto, estremo, nascondimento di Morresi e Annovi attraverso la trasparenza frammentata del senso di Riviello, Zaffarano, Marzaioli, Pugno, Socci e Giovenale fino al territorio indistinto dove poesia e prosa si incontrano nella più ampia dizione di scrittura con movimento tuttavia inverso rispetto al genere della “prosa poetica” (cripto-metri che vanno verso la prosa e non narrazione che si muove verso la musicalità poetica) e ad esso assolutamente non riconducibile (Michele Fianco, Mariangela Guatteri, Alessandra Cava e Marilena Renda).



E proseguendo con il colpo d’occhio (e non più con l’orecchio, non solo) si ha l’impressione che il terzo millennio, pur in quel territorio neutro più volte richiamato da Andrea Cortellessa come fosse un far west del passaggio per la conquista di una nuova, sconosciuta dimensione, non solo linguistica ma politica, con la nuova misura del linguaggio digitale, il suo viluppo video-linguistico, il presente interattivo della comunicazione e la sua misura breve, sia entrato a far parte della scrittura di queste due ultime generazioni sostituendo alla nozione plurilinguistica quella dell’uso di compresenti modalità comunicative ( Elisa Davoglio).

L’arco della ricerca è davvero ampio e complesso. Impossibile percorrerlo con chiarezza in poche righe: si va dalla punta estrema di una visionarietà trasfigurante il quotidiano come nei versi di Florinda Fusco, dall’intensità poematica, densa di significato, di Sara Ventroni  e di Maria Grazia Calandrone, dal flusso di coscienza di Gilda Policastro al gesto volutamente minimo  e d’angolo dei più giovani ( i già citati Annovi e Morresi).

Molti i critici in discussione, accompagnanti ed esplicanti, più che interroganti, i testi, critici delle nuove e vecchie generazioni, interni ed esterni al gruppo Escargot, dal più “anziano”, Giulio Ferroni, sul punto di concludere il suo percorso didattico alla Sapienza – il 22 maggio la sua ultima lezione – a Arturo Mazzarella, Giorgio Patrizi, Tommaso Ottonieri e Andrea Cortellessa fino ai più “giovani”, Massimiliano Manganelli, Francesca Fiorletta, Paolo Febbraro, Cecilia Bello Minciacchi, Federico Francucci, Roberto Galaverni , Paolo Giovannetti, Antonio Loreto, Fabio Zinelli e Paolo Zublena.



Serpeggiante il dibattito, nato sin dalla sera del diciassette, nonostante la stanchezza dei convenuti (sessione dei lavori aperta fino a mezzanotte e mezza ) poi emerso del tutto, come da programma, nel pomeriggio di domenica diciannove e svoltosi sul ciglio delle questioni centrali - non solo in poesia – della nostra epoca: l’autore, il soggetto, l’io, la memorabilità, il significato e la valenza  politica della scrittura, con ripetute evocazioni della poesia italiana novecentesca da Balestrini ad Antonio Porta, a Edoardo Sanguineti ed Amelia Rosselli, al, più volte ricordato, Aldo Palazzeschi.


Finale appassionato e “accaldato” con richiesta di chiarezza e di valore ( Gilda Policastro).
Questioni non da poco se a sollevarle è la generazione che ora deve prendere, e pretendere, la scena trovandola occupata da tanti che seguitano a fare confusione e, nel rumore, non vedono, non sentono, sulla pelle e sulla lingua, la contemporaneità e il nuovo modo di comunicarla (come se un amanuense insistesse a negare l’esistenza del libro a stampa).
Ad Andrea Cortellessa il compito finale di concludere tentando di riassumere le varie domande in una sola: cosa vuol dire ricerca, quale il suo significato politico.

La risposta Andrea la dà nel corpo della lingua citando l’Elio Pagliarani della Lezione di Fisica (1964): “ e invece non ci basta nemmeno dire no che salva solo l’anima
ci tocca vivere il no misurarlo coinvolgerlo in azione e tentazione

perché l’opposizione agisca da opposizione e abbia i suoi testimoni.”

Cetta Petrollo Pagliarani

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