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lunedì 12 ottobre 2015

Pagliarani premia al Teatro Argentina

Cari amici,
ho il piacere di invitarvi tutti alla cerimonia di premiazione della Iª edizione del “Premio Nazionale Elio Pagliarani” che si svolgerà lunedì 26 ottobre 2015 alle ore 17,00 nella Sala Squarzina del teatro Argentina di Roma.
Tutti i dettagli nel programma allegato. Potete consultare anche il sito del Premio (www.premionazionaleeliopagliarani.it) o la pagina facebook (premionazionaleliopagliarani).
Vi aspettiamo numerosi!
La Presidente
Cetta Petrollo Pagliarani

I finalisti:

Editi:
1) Vito Bonito, Soffiati via, Il ponte del sale
2) Alessandro Broggi, Avventure minime, Transeuropa
3) Gilda Policastro, Inattuali, Transeuropa, E-book
4) Ivan Schiavone, Cassandra, un paesaggio, Oèdipus edizioni
5) Michele Zaffarano, La vita la teoria e le buche, Oèdipus edizioni 

Inediti:
1) Laura Cingolani, Mangio alberi e altre poesie 
2) Lorenzo Mari, Ornitorinco in cinque passi 
3) Silvia Tripodi, Voglio colpire una cosa

martedì 23 giugno 2015

Scrivere bene
























La poesia dev’essere scritta altrettanto bene quanto la prosa. La lingua dev’essere bella e in nessun modo allontanarsi dalla parola detta, se non per un’accresciuta intensità (cioè semplicità). Non devono esservi parole libresche, niente perifrasi, niente inversioni. Dev’essere semplice come la prosa di Maupassant e dura come quella di Stendhal. Non sono ammesse le interiezioni, non le parole che volano via nel nulla. Ammesso che non si può ad ogni colpo far centro, si almeno questa l’intenzione. Il ritmo deve avere un significato. Non può essere una semplice partenza, senza presa, senza stretta sulle parole e il senso. Niente clichés, niente frasi fatte, stereotipie giornalistiche. Il solo modo di sfuggire a questo è la precisione, che è il risultato di un’attenzione concentrata a ciò che si sta scrivendo. La prova di uno scrittore è la sua capacità di simile concentrazione e la sua facoltà di rimanere concentrato finché non sia arrivato alla fine del suo lavoro, siano due versi o duecento. Oggettività e ancora oggettività ed espressione. Niente code al posto delle teste, niente aggettivi a cavalcioni (come “putridi muschi fradici”). Niente, niente che non si possa in qualche momento, nella stretta di qualche emozione, effettivamente dire. Ogni letterarismo, ogni parola libresca sgretola via un pezzetto della pazienza del lettore, un po’ del suo sentimento della vostra sincerità. Quando uno sente e pensa veramente, egli balbetta le parole più semplici. La lingua è fatta di cose concrete. Espressioni generiche in termini non-concreti sono pigrizia; sono conversazione, non creazione. Il solo aggettivo che valga la pena di usare è l’aggettivo essenziale al senso del passaggio. Mai l’aggettivo decorativo.  

II Concisione, ovvero stile, ovvero dire ciò che s’intende dire col minor numero di parole e le più chiare. Effettiva necessità di creare o costruire qualcosa; di presentare una immagine o più immagini di oggetti concreti, disposti in modo da toccare il lettore. Al di là di questi oggetti concreti si possono fare semplici constatazioni del sentimento sui fatti; come “sono stanco” o “alla morte non può seguire peggiore male”, ecc. Io credo vi debbano essere più, molti più oggetti che constatazioni e conclusioni, essendo queste ultime puramente ipotetiche (optional), non essenziali, spesso superflue e quindi pessime. Ma bisogna che vi sia l’emozione, o la cadenza e il ritmo saranno rapidi e senza interesse. Il compito del poeta è definire e ancora definire finché il particolare alla superficie sia in accordo con la radice nella giustizia. In nessun caso la costipazione del pensiero, sia pure nel particolare, consentirà bella scrittura. Lucidità… 

III Poesia è l’arte di caricare ogni parola del suo massimo significato. 

IV Buttate fuori tutti i critici che usano vaghi termini generici; non solo quelli che usano vaghi termini generici perché sono troppo ignoranti per dar loro un significato, ma quelli che usano vaghi termini per nascondere il significato; e tutti quei critici che usano i loro termini in modo così vago che il lettore può immaginare siano d’accordo con lui o gli diano ragione mentre non è così: col che intendo dire che i loro articoli possono sempre apparire in solide e rispettate riviste senza scatenare una zuffa o provocare le proteste degli abbonati. La prima credenziale che noi dobbiamo esigere da un critico è la sua ideografia del bello, di ciò che egli considera scrittura valida e di tutti, tutti i suoi termini generici. Allora sapremo a che punto si trova. Non potrò mai ripetere troppo spesso o con troppa energia la mia diffidenza (caution) per i cosiddetti critici che parlano tutto intorno all’argomento e non definiscono i loro termini e non sanno dire francamente che certi autori sono una scocciatura maledetta. Fatevi dire da un uomo prima, e con tutti i particolari, quali sono per lui i buoni scrittori: solo dopo ne ascolterete le spiegazioni. 


Ars Poetica di Ezra Pound Tr. di Cristina Campo in La tigre assenza (Adelphi, Milano 1991) 

venerdì 1 novembre 2013

Ultimo indirizzo conosciuto

https://www.youtube.com/user/orteseiguana
Commento sul tuo video: [videorlab] Costa e Spatola in redazione
Prezioso documento...
Miniatura 46:16
[videorlab] Costa e Spatola in redazioneDopo il numero 1 di Videor, preparando il secondo. Nella casa-atelier di Adriano Spatola, redazione di Videor la videorivista di poesia diretta da Elio Pagliarani con Nanni Balestrini Corrado Costa Vito Riviello Adriano Spatola

domenica 8 settembre 2013

akríbeia

 La voce colta acribìa significa «esattezza, meticolosa precisione (in una ricerca, in un lavoro filologico e simili)». La definizione è tratta dal Vocabolario della lingua italiana Treccani, che indica nel greco akríbeia ‘precisione’ l’origine del vocabolo italiano. In italiano, peraltro, l’antica parola akríbeia viene ripresa dai dotti studiosi di filologia soltanto verso la fine dell’Ottocento. Forse acribia ci è giunta transitando prima attraverso il tedesco Akribie

Aldo Tagliaferri, Corrado Costa «una sorta di Eric Satie» dell'avanguardia
Parole per una utopia anarchicamente garantita
Niva Lorenzini
:::
«C’era una volta…». Sì, c’è stato un tempo, neppure troppo remoto – tra gli inizi degli anni Sessanta e la fine dei Settanta – in cui si credeva possibile rifondare il mondo, trasformando un movimento di idee in moto di rivolta contro il conformismo, la sclerosi, le disuguaglianze, la violenza di una società basata sullo sfruttamento, che marginalizzava il dissenso, espropriava il vissuto. Se ne legge testimonianza in una rivista ricomparsa da poco, davvero preziosa per chi, per ragioni anagrafiche, non avesse potuto seguire dal vivo dibattiti e contrasti, tensioni e contrapposizioni. «Quindici», riproposta ora in antologia da Feltrinelli per le cure di Nanni Balestrini, ne dà articolato riscontro: e davvero conserva piena efficacia, nella sua totale inattualità, quel dibattito tra ragioni della letteratura e della politica, della militanza e delle controculture che si sovrapponevano e convivevano, appassionate ed estreme.
Crudeltà come appetito di vita
Volevamo la luna, intitola Cortellessa una sua densa e lucida postfazione, in cui passa in rassegna temi e modi di quel dibattere, siglato da letterati e giornalisti, artisti, architetti, scienziati, esponenti dell’antipsichiatria, che rispetta pienamente le intenzioni indicate nell’editoriale da un Andrea Barbato misurato e caustico: puntare al «parziale» e al «contraddittorio», promuovere il dubbio e il disordine, contro l’ordine delle certezze. E si tocca con mano una distanza, una separatezza, se non proprio uno spaesamento, con tutte le conseguenze del caso.
Ma non di questo intendo parlare, in una stagione come la nostra che di Sessantotto, della sua complessità, si sta variamente occupando con indagini rigorose, ma è anche chiamata a sensibilizzarsi tempestivamente, con urgenza, per ciò che intorno accade di pericoloso, di irrimediabile, qui e ora. Voglio dedicare piuttosto questa breve nota a due collaboratori di «Quindici», per niente occasionali, dal momento che il primo, Adriano Spatola, ne è redattore fin dal primo numero, insieme con Giulia Niccolai e Letizia Paolozzi, e il secondo, Corrado Costa, ne è collaboratore fisso, perlomeno all’inizio, e ne influenza una linea sadiana e artaudiana: quella della Letteratura della crudeltà (una crudeltà come appetito di vita, rigore cosmico, necessità implacabile), se ci si consente di sottrarre il titolo a uno scritto di Edoardo Sanguineti comparso sul numero d’esordio, insieme con una provocatoria pagina del poeta-avvocato Costa, Pornolaroid (seguita, nel secondo numero, da un’altra, Neosade, non meno irriverente, a proseguire in qualche modo la linea di una letteratura che pratichi – lo indicava Sanguineti – la «categoria del cinismo violento»).
Nelle zone del non detto
Ciò che Spatola e Costa si propongono di attuare, in modi differenziati nell’applicazione ma non lontani nelle intenzioni, è la destrutturazione del linguaggio, l’introduzione di un «disordine» controllatissimo, eppure esplosivo ed eversivo, che penetra tra le giunture della sintassi, libera la lettera dallo schema grafico e tipografico e la poesia dalla separatezza che le preclude interferenze con le arti, il teatro, la musica, il cinema. Entrambi vogliono dilatare lo spazio della scrittura, esporla al contatto con il momento visivo e con la voce, con l’esecuzione, ritenendo la «poesia totale» l’unica maniera – lo scrive Spatola su «Quindici» sotto il titolo Poesia, apoesia e poesia totale – di «usare positivamente e concretamente, nella direzione di una utopia anarchicamente garantita», l’esperienza del linguaggio. Ed entrambi vogliono poi provocare la «dicibilità» investigando anche le zone del non detto, delle rifrazioni, del doppio, fino a rendere udibile, visibile – lo fa soprattutto Costa – il vuoto e l’afasia,
Inutile nasconderlo: non li si conosce, Spatola e Costa, se non in nicchie di affezionati dell’avanguardia e di estimatori delle sue propaggini emiliane, localizzabili tra Reggio Emilia e Parma, nella cittadella perimetrata del Mulino di Bazzano, sorta di corte rurale protetta di proprietà della famiglia Costa sulla sponda parmense del fiume Enza. Lì, in un isolamento ancestrale (il telefono a qualche chilometro di distanza), Adriano Spatola e Giulia Niccolai si ritirano a conclusione dell’esperienza di «Quindici»: e tengono, sull’ampio tavolo di cucina, tra profumi di minestrone e spezzatino e aromi di colla e carta, riunioni redazionali del marchio editoriale Geiger, discutono i numeri di «Tam Tam», «Baobab», «Cervo volante», fondano una minuscola tipografia artigianale autogestita, sacerdoti laici di una pratica del libro-manufatto condivisa da amici dell’Italia e del mondo.
Fin qui la cronaca, gli aneddoti, ricostruiti con discrezione e affetto da Eugenio Gazzola nel volume fresco di stampa «Al miglior mugnaio». Adriano Spatola e i poeti del Mulino di Bazzano, uscito presso Diabasis (pp. 215, euro 17): a quelle pagine rimando, così attente nel definire il sapore del luogo e lo scandirsi del tempo in cui prende corpo una scrittura che a poco a poco viene svelata e illustrata, dallo sperimentalismo degli inizi affidati alla rivistina «Bab Ilu» (due soli numeri nel ’62) o dalle prove di Zeroglifico, iniziate nel ’65, che si collocano tra poesia concreta e poesia lineare, azzerando il valore semantico della lettera per consentirle nuove operazioni di rimontaggio, fino alla dilatazione della parola oltre i confini del soggettivo e il perimetro della pagina, per affrontare l’«urto dei nuovi frammenti», da Diversi accorgimenti (1975) alla Piegatura del foglio (1983), con le allegorie da fine della storia che le si connettono.
Non è insomma solo l’autore di Verso la poesia totale (1969), Spatola, o lo sperimentatore (il poeta visivo) che si pone al confine tra letteratura e arte, o l’esecutore (il poeta corporale) di performances divenute celebri per le reiterazioni di parole (celeberrima Aviation aviateur…): è poeta «senza aggettivazione», che il testo di Gazzola aiuta a riscoprire nella sua intensità, fatta di antimelodia e ribaltamenti tematici, ritmi giocosi e scacco della rappresentazione, fino ad accettare la sfida del silenzio o ad affidare al corpo, alla sua sola presenza, l’atto del comunicare.
Tacere, scriveva Sartre, non è «essere muti», ma rifiutarsi di parlare, e dunque «parlare ancora». Lo ricorda Simonetta Bondoni in una pagina dedicata questa volta a Costa, alla sua «cosciente afasia», all’interno di un volume curato ancora da Gazzola che ne restituisce la fisionomia a tutto tondo (Corrado Costa, The complete Films. Poesia Prosa Performance, Le Lettere, collana «fuoriformato», pp. 352, euro 35, con un dvd di Daniela Rossi). Proprio il poeta-avvocato (difensore di Tondelli in occasione della denuncia di Altri libertini) si rivela, di pagina in pagina, il massimo esponente di una scrittura dello sdoppiamento, della perdita senza recupero di una parola abusata. Nel rovescio, nel «retro», va indagato, per Costa, il senso abraso: ed è davvero straordinaria la sua capacità di rendere fisica, attraverso la negazione, la concretezza di ciò che non viene pronunciato, con la levità eversiva e l’ironia di un surrealismo giocoso, da patafisico che smaschera i perbenismi e gli usi strumentali del linguaggio.
Un «signore degli gnomi», chiosava con la consueta acribia critica Alfredo Giuliani ricordandolo sulla «Repubblica» il 12 febbraio 1991, a tre giorni dalla morte: una «creatura leggera» che si dilettava «a scrivere, a vivere, con grande intelligenza, sensibilità, compostezza, ironia».
Un grande dilettante
Auspicava, Giuliani, che qualcuno raccogliesse in volume tutte le sue poesie per conservarne – scriveva – «le scintille, il garbo spiritoso, le malinconie festose». 
È stato fatto. E fa bene al cuore rileggerlo e riascoltarlo, il poeta dello Pseudobaudelaire (1964), delle Nostre posizioni (1972), di The Complete Films (1983), «fool amabile e inaffidabile», secondo Cortellessa: poeta e basta, da apprezzare nell’irriducibilità del suo volerci convincere, «testoni» che siamo, a sollevare la superficie, per scoprire, insieme con l’insopportabilità delle «ferite narcisistiche», il rovescio delle apparenze (l’«enigma della vita, l’assenza, il buco al cuore che ci portiamo dentro», scrive Giulia Niccolai).
Rileggerlo come «grande dilettante», saggista, vignettista, scrittore di teatro, per cogliere quel suo «vuoto lasciato pieno» (così Balestrini nella poesia A Corrado) e cautelarci intanto dalle semplificazioni, dall’omologazione. Parliamone, di Costa e di Spatola, perché non è tempo di clandestinità per il pensiero.
__________
Articolo apparso su Il Manifesto mercoledì 14 maggio 2008

domenica 7 aprile 2013

A Girl named Carla


La Ragazza Carla A Girl named Carla, translated into English by Luca Paci with ...

Un amico psichiatra mi riferisce di una giovane impiegata tanto poco allenata alle domeniche cittadine che, spesso, il sabato, si prende un sonnifero, opportunamente dosato, che la faccia dormire fino al lunedì Ha un senso dedicare a quella ragazza questa «Ragazza Carla»?
 1

Di là dal ponte della ferrovia
una trasversa di viale Ripamonti
c'è la casa di Carla, di sua madre, e di Angelo e Nerina.

Il ponte sta lì buono e sotto passano
treni carri vagoni frenatori e mandrie dei macelli
e sopra passa il tram, la filovia di fianco, la gente che
                                                                 [cammina
i camion della frutta di Romagna.

Chi c'è nato vicino a questi posti
non gli passa neppure per la mente
come è utile averci un'abitudine

Le abitudini si fanno con la pelle
così tutti ce l'hanno se hanno pelle

Ma c'è il momento che l'abito non tiene
chissà che cosa insiste nel circuito
                                             o fa contatto
                                                              o prende la tangente


A psychiatrist friend of mine tells me about a young office worker so little accustomed to city Sundays that often on Saturdays she would take a sleeping pill, in just the right dosage, to make her sleep until Monday. Does it make sense to dedicate ‘Ragazza Carla’ to that girl?


1

Beyond the railway bridge
cutting across Ripamonti boulevard
 is the house of Carla, her mother and of Angelo and
[Nerina.
The bridge stands there quiet and beneath pass
trains lorries breaking wagons and herds for the
[slaughterhouses
above the tram runs by, trolleybus line alongside,
[people walking
the lorries with fruit from Romagna.
For those born near these places
it doesn’t even occur to them
how having a habit is useful
Habits are made with the skin
thus everyone with skin has them
But there comes the moment when the habit wears out
who knows what’s shorting the circuit
                                                           or making contact
                                                                                  or going off on a tangent


allora la burrasca
                              periferica, di terra,
il ponte se lo copre e spazza e qualcheduno
può cascar sotto
e i film che Carla non li può soffrire
un film di Jean Gabin può dire il vero
è forse il fischio e nebbia o il disperato
stridere di ferrame o il tuo cuore sorpreso, spaventato
il cuore impreparato, per esempio, a due mani
che piombano sul petto

Solo pudore non è che la fa andare
fuggitiva nei boschi di cemento
o il contagio spinoso della mano.

2

Il satiro dei boschi di cemento
rincasa disgustato
                              è questo dunque
che ci abbiamo nel sangue?

                                   O saranno gli occhiali? Intanto è ora
                                   che si faccia cambiar la montatura.

3

Se si diventa grandi quando s'allungano
le notti, e brevi i giorni
                                      ecco ci sono dentro
sembra a Carla di credere, e sta attenta a non muoversi
ché il sonno di sua madre è così lieve nel divano accanto
- ma dormirà davvero, con Angelo e Nerina
che fanno cigolare il vecchio letto
                                                        della mamma!


then the peripheral
                                   storm, earthbound,
covers the bridge and wipes it off and some body
can fall beneath
and the films that Carla can’t stand
a film by Jean Gabin can tell the truth
and perhaps it’s the whistle and fog or the desperate
metallic clanging or your surprised, frightened heart
a heart unprepared, for instance, for two hands
that drop onto your breasts
It’s not modesty alone that makes her go
fleeing into the concrete groves
nor the thorny contagion of the hand.

2
The satyr of the concrete groves
returns home disgusted
                                               is this then
what we’ve got in our blood?
Or will it be the glasses? So now it’s time
For him to get the frames changed.
3
If you grow up when the nights
get longer and the days shorter
                                                               that’s where I am
Carla seems to think, and she tries not to move
‘cause her mother is sleeping lightly on the settee
[alongside
- but will she really sleep, with Angelo and Nerina
making her mother’s old bed squeak!


e Carla ne commisura il ritmo al polso, intanto che sudore
e pelle d'oca e brividi di freddo e vampe di calore
spremono tutti gli umori del suo corpo. E quelle
grida brevi, quei respiri che sanno d'animale o riso nella
                                                                           [strozza
ci vogliono
                  all'amore?
                                   E Piero sul ponte, e la gente -
                                   tutta così?

S'addormenta che corre in una notte
che non promette alba
                                     sul ponte che sta fermo e lì rimane
                                                                         e Carla anche.
4
La madre fa pantofole, e adesso che Nerina ha suo marito
c'è Carla che l'aiuta: infila l'ago, taglia le pezze
fa disegni buffi, un fiocco rosso
in cima, un nastrino di seta
                                              che non vanno
chi compera pantofole dalle Dondi
non ha civetterie: le vecchie vogliono le prove,
e pantofole calde, pagamento più tardi che si può

due anni che una signora Ernani ha da pagare
le sue trecento lire, e puzza di liquori

le giovani sposate sono sceme, alle cose gentili non ci
                                                                           [vogliono
nemmeno un po' di bene, anzi le guardano con rabbia
man mano che col tempo si dimenticano
d'esser state ragazze da marito



and Carla matches the rhythm to her pulse, whilst sweat
and goose-pimples and cold shivers and hot flushes
squeeze out her bodily fluids. And those
short squeals, those animal-like breaths or guttural
[laughter
are they necessary
                           for love?
                                               And Piero on the bridge, and the people –
                                               Are they all like this?
She falls asleep, a sleep which runs through a night
promising no dawn
                                    on the bridge which remains still and stays
[there
                                                                                                     and Carla too.
4
The mother makes slippers, and now that Nerina has her
[husband
it’s Carla who helps her: threading the needles, cutting the
[pieces
making funny patterns, a red bow
on top, a little silk ribbon
                                                           which aren’t en mode
people who want to buy slippers from the Dondis
are not vain: the old women want substance,
and warm slippers, payment as late as possible
it’s two years since a certain signora Ernani has had to pay
her three hundred lire, yet stinks of spirits
the young married women are silly, delicate things they
[don’t like
at all, what’s more they look on them angrily
as time passes they gradually forget
having been girls for marrying
 

"A GIRL NAMED CARLA"

Un estratto da "La ragazza Carla" di E. Pagliarani, con traduzione inglese di Luca Paci.

Articolo postato lunedì 19 giugno 2006 da Adriano Padua
Luca Paci, che ringrazio, mi ha gentilmente inviato un estratto della sua traduzione in inglese del poema di Elio Pagliarani "La ragazza Carla" (Mondadori 1962). (Elio Pagliarani, A Girl Named Carla, edit. and trans. by Luca Paci, Leicester, Troubador, 2005). E’ possibile leggerla in formato word, nell’allegato in alto a destra. Qui di seguito un colloquio tra Pagliarani e lo stesso Luca Paci.
A.P.

Colloquio con Elio Pagliarani
di LUCA PACI
Elio Pagliarani vive a Roma, in una palazzina non lontano dalla Citta’ del Vaticano, un’area moderna e popolare insieme.
Mi accoglie nel suo ingresso-salotto, sulla nostra destra una libreria che sale fino al soffitto. Dopo una lunga introduzione su quello che faccio, da dove vengo e cosi’ via, il signor Pagliarani comincia a parlare di se’ o piuttosto della poesia. E’ un’intervista strana, con rare domande da parte mia; la voce leonina del poeta e l’odore di pipa cospirano a creare un’atmosfera sospesa ed irreale. Fuori il traffico romano.
"Palazzeschi, si’... Devo dire che Palazzeschi e’ tra i miei poeti favoriti. Fu uno dei primi che si rese conto della mutata funzione della poesia, la chiamava "saltimbanco dell’anima mia". Era mutata la funzione dell’arte, il divertimento, del resto anche Picasso..."
Il signor Pagliarani accenna, non asserisce, abbozza un discorso che deve essere intuito e quasi figurato dall’ascoltatore. Ho un piccolo quaderno per annotare qualche appunto.
"Io credo che la poesia sia testimonianza. Nel Novecento scompare il poeta civile alla Foscolo o alla Carducci per intenderci. Rimane pero’ la funzione di testimonianza anche se cambia la visione. E’ cambiata la visione de La ragazza Carla per esempio rispetto a La ballata di Rudi. La prima raccolta e’ ariosa, ironica ed ottimista mentre ne La ballata di Rudi c’e’ pessimismo, non ci sono colori e non solo per ragioni anagrafiche. E’ cambiato il mio modo di vedere il mondo".
Tira fuori dalla libreria un volume sui Novissimi con versione inglese a fronte.
"Il libro e’ a cura di Paul Ballerini, c’e’ una parte de La ragazza Carla, non tutta purtroppo. Cominciai la stesura del poemetto a Milano nell’autunno del ’54 e lo terminai il giorno di Ferragosto del ’57. La ricerca partiva dalla necessita’ di ampliare il linguaggio poetico o meglio il linguaggio in generale".
Quest’ultima osservazione mi permette di portare il discorso al Gruppo ’63, questo enigma della cultura italiana del secondo Novecento. E’ esistito? Vi era un fronte ideologico compatto?
"Non e’ mai esistito un fronte ideologico compatto nel Gruppo ’63, esistevano piuttosto due direttrici fondamentali: la questione della lingua e la oggettivita’ al posto della soggettivita’. Io ne La ragazza Carla cerco l’oggettivita’ dello sguardo. Balestrini va ancora piu’ in la’ usando la tecnica del "taglia incolla" . Eravamo stufi della poesia lirica, volevamo una poesia non lirica e antiaccademica. Il Gruppo ’63 nasce come movimento contro l’establishment. Le due traduzioni di Giuliani, il giovane Eco che dava corpo alle nostre posizioni teoriche su Opera aperta, il mio articolo pubblicato su Nuova Corrente dal titolo Per una definizione di neoavanguardia, contribuirono a diffondere queste idee. La lingua era al centro del dibattito. Ci siamo ribellati contro una lingua poco vitale. Penso che con il Futurismo la Neoavanguardia sia l’unico grande movimento in Italia contro l’Accademia".
Ma l’ossessione per la lingua, lo stile non si trasforma anch’essa in puro formalismo, una sorta di Arcadia? Non si corre il rischio di compiacersi nella pura forma linguistica perfetta ma priva di contenuto?
"E’ in parte vero che alcuni esponenti del Gruppo ’63 indulgono al formalismo, ma e’ anche vero che movimenti come l’Arcadia o Vincenzo Monti contribuirono in maniera essenziale a preparare il linguaggio al Leopardi. Il linguaggio del poeta e’ gia’ nel Monti anche se il Leopardi ne fa poi una rielaborazione personalissima".
Mi colpisce in Pagliarani la visione di insieme della storia della poesia italiana, il continuo riferimento alla struttura come tecnica. Anche su Montale per esempio ha un giudizio abbastanza netto.
"Montale era bravo, si’, ma anche furbo. Penso agli articoli che firmava e non scriveva. Non pubblicano l’epistolario perche’ e’ una litania infinita di lamentele e richieste. Aveva una dose di autoironia pero’. Ossi di seppia sono un libro importante con La bufera e altro, che secondo me e’ il suo punto piu’ alto. Poi dopo gli anni ’70 non scrive piu’ niente di rilevante".
Intanto fra di noi due bicchieri e una bottiglia di whisky.
"Mia figlia si e’ dimenticata di mettere il vino bianco al fresco. Ti posso offrire solo whisky".
Le piace Zanzotto?
"Zanzotto e’ un grande poeta, uomo di cultura, un navigatore. Ha una forte tensione lirica che lo accompagna sin dalle prime raccolte, da Elegia e altri versi. Certo, c’e’ stata anche una certa confusione, si diceva per esempio che la sua poesia fosse pre-lacaniana o assurdita’ del genere... Lui parla con le sue idee, e’ un poeta che tuttavia non ha una lingua, mutua piuttosto da differenti linguaggi".
Due ore sono gia’ trascorse dal nostro incontro. E’ ora di cena. Ci sara’ una presentazione dell’ultimo libro di Tommaso Ottonieri in una libreria a Trastevere alla quale sono gentilmente invitato. Il signor Pagliarani mi accompagna al portone e mi indica la via per il metro’.

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