Nell'incontro con il pubblico [ 7 dicembre ' 99] Camilleri ha sostenuto:
1) che la sua scrittura ha bisogno della voce - ossia che egli, in qualche modo soggiace all'oralità, per così dire;
2) che egli ritiene che si può benissimo rinnovare la Lingua per mezzo dei dialetti - che altrimenti si perderanno - anzichè con l'ausilio, come d'uso, delle lingue straniere.
Per il punto 1), quindi, ritorna il fantasma della grana - dell'impasto sonoro che ci prende
alle spalle mentre si scrive -, richiamando un pò Barthes, che è senz'altro lo spettro della memoria - patrimonio genetico dell'umanità - che ci rulla dentro e che evochiamo, magari incosciamente, e magicamente - ritualmente - con la scrittura.
Indagare questa sorta di "demone", sondarne natura e struttura, significa calarsi - tuffarsi - nel mare di noi che ci parla, esistenzialmente, prima di tutto, mentre ci esprimiamo secondo il patto sociale di solidarietà umana che attraversa e governa la Lingua, sociostoricamente.
L'oralità è il nostro doppio, in questa guisa, quel tanto e quel qualcosa che tralasciamo, ma che ci accompagna insonne, aderendo alla comunità linguistica e costituendoci attori - attanti - del discorso. Il computer, i mezzi elettronici, della nuova e cospicua tecnologia, che ci accomoagnano, ora, racchiudono, mi sembra, al di là dell'asettica scientificità pretesa e presunta, questo tenebroso mistero di intangibilità e insondabilità della comunicazione.
Io, elettronicamente, mi dilato, esprimendomi, più narcisisticamente di quanto si pensi e, perciò, più narcoticamente "altro" d'ogni pianificazione digitale. Le parole - e lo dimostrano i nuovi esperimenti video - diventano vera e propria "materia", incandescente e vibrante, che grancassano, malgrado me, il mio vuoto di "voce", parlandomi nella distanza cosmica che, allegoricamente, fagocita l,"origine", di cui sono orfano, della parola.
Questo, ritengo, il ribaltamento essenziale: la pianificazione elettronica, ch'è materia sonora e vibrante, miscela incandescente, mi appaga, rimbalzandomi vuoto, all'infinito, dei miei precordi smarriti e dimenticati. E' una scrittura, l'elettronica, che soddisfa quante altre mai l'oralità, sia pure tradendola (in quanto fissa il vortice dell'amplificazione che mi vende al mercato delle voci, senza più che mi appartemga). In quanto, rispetto al periodo ordinato e piatto della stampa, io perdo l'orientamento e piuttosto mi labirintizzo; e seguo la virtualità del mio pensiero, astrattamente e speculativalente, più di quianto mi poissa assorbire la materialità della grafia, della stampa, che è materia di soddisfacimento visivo e manducativo.
L'oralità è la sacralità del dire, in quanto manifesta l'alito divino (Borges ha specificato che il volare del verbo - parola - è estensivo, accrescitivo, non limitatito, nei confronti della scrittura). La scrittura, come sociostoricamente codificata, fin qui, è l'ordine riconosciuto ed estraneo - rispetto al soggetto, disoggettivante -, con cui il soggetto si consegna alla comunicazione corrente ( anche quando, nel caso di poeti e scrittori, specie sperimentali, l'attaccano per strizzarne ogni libertà espressiva: l' individualità mitopoietica dell'arte è il salto, il conflagrarsi della collettività, per il massimo riconoscimento collettivo d' ogni istanza individuale che il socius ha eluso o deluso).
Dei "dialetti", per il punto 2) di Camilleri - in lui il siciliano - è un'ipotesi - è il tarlo che baca la mela, nel senso che esprime con vigore le pulsioni, direttamente, che poi la mediazione socio-storica stempera -, mi sembra, accantonandone ogni recupero romant ico e prelapsario alla Pasolini - l'universalità semantica -, mi sembra importante il registro espressionista - deformante rispetto al Centro - di Gadda.
In questo senso i dialetti equivalgono alle lingue straniere: straniano, raffreddano, condensano, in modo che il testo, insomma, dal suo stesso interno, possa desiderarsi e inseguirsi "altro".
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