Alfredo Giuliani
IL POSTO DEL POETA (1991)
Negli ultimi anni ho dovuto dire addio a troppi amici. E com’erano singolari, preziosi. Una persona all’improvviso entra nel regno delle ombre (lo chiamiamo regno non sapendone niente), Ci capita di sentire il gentile scintillìo che dentro di noi, inetta memoria, quell’ombra ha lasciato, Poi la cosiddetta vita ci trascina, finché anche noi non diventiamo ombre. Devo fermare quel trascinamento, pregare l’Etemità Divorante di avere un po’ di pazienza, perché la poesia è una facoltà-illusione di fermare il tempo, di rallentarlo e sfinirlo nel delirio dell’immobilità, e io devo parlare di Corrado Costa, il poeta più discreto, lo squisito praticante dell’understatement, colui che una sola volta ha osato enunciare una frase perentoria: «Non si sviluppa tempo nel tempo della poesia».
La poesia resta ferma, È una frase solo apparentemente perentoria, di fatto può essere una semplice constatazione. La patafisica, la dottrina burlesca dell’immaginario di cui Costa era un ilare seguace, è la scienza delle supreme constatazioni. Quando pubblicò il suo primo libretto di poesie Pseudobadelaire, da Vanni Scheiwiller nel ‘64, Costa si presentò con una brevissima «notizia»: è nato al Mulino di Bazzano (Parma) il 9 agosto 1929, vive a Reggio Emilia esercitando l’avvocatura e la patafisica.
Qualche anno dopo, in un nuovo libretto (stavolta un racconto), la notizia si allungò di qualche riga, ma il tono era tempre quello del gentiluomo un po’ bizzarro, dilettante dell’avanguardia, che si tiene (vivacemente) ai margini: Corrado Costa appartiene occasionalmente alla letteratura. Questo vuoi dire che Corrado non intendeva annoverarsi tra gli scrittori di carriera. Costoro sono più istituzioni che artisti. Tutti si aspettano che producano.
A parte alcuni introvabili libretti, e qualche volume di saggi (Inferno provvisorio, Feltrinelli 1971; La sadisfazìone letteraria, Cooperativa Scrittori 1976) oggi altrettanto difficili da reperire, Costa disperdeva le sue poesie in riviste, rivistine, plaquettes, pubblicazioni di gallerie d’arte, stampe per pochi amatori e amici, Chi conosce l’Il Mignottauro del 1970, scritto con Emilio Villa?
Ultimamente aveva inventato una collanina (ogni fascicolo era stampato in cento copie) all’insegna del delizioso Cafè De La Galerie di Reggio Emilia. Ho qui sotto gli occhi Piccola lode al pubblico delle poesia di Nanni Balestrini spirirosamente illustrato da Costa (sì, questo garbatissimo dilettante aveva talento anche per il disegno). Si dilettava, a scrivere, a vivere, con grande intelligenza, sensibilità, compostezza, ironia. Le sue malinconie scintillavano negli occhi pungenti di fantasia.
Sono tante le poesie di Costa che mi vengono in mente. Sfoglio i libretti, le piccole riviste che ho ripescato dagli scaffali, posso sceglierne appena qualche testo per dare ai lettori un’idea dell’amico scomparso. Nel volumetto Le nostre posizioni (Geiger 1972) ritrovo Conversazione da solo: «ci sono delle cose che sono / di fronte a questa pagina aperta / collegate ad altre che sono dietro le spalle / ci sono delle cose di fronte a questa pagina aperta / che sono collegate / alle cose che mancano / le cose come le cose / al centro c’è il tuo posto / al tuo posto non c’è nessuno». In una rivistina mi cattura una strofa dalla poesia Non copiare dagli occhi: «Questo / che chiamiamo scorrere / è rimanere intatto / il fiume di cui si parla / è parlare di un fiume / è questo che chiamiamo / scorrere senza foce».
Non la resa emotiva o concettuale alla lingua, ma l’attenzione minuziosa alla lingua, al pensiero della griglia di parole che la scrittura oppone alle cose: qui era probabilmente il nucleo dell’assillo poetico di Costa (un assillo mascherato e forse anche moderato dalle incombenze professionali dell’avvocato penalista). La poesia che concludeva il suo Pseudobaudelaire è carica di significati: «Così non essere legati ad un contesto — contestare / così non aspettare revisione restare condannati / così fuori tribù, fuori scheda o catalogo essere salvati / come se dio nascesse preghiera per preghiera / come se ogni ostaggio impugnasse la storia / come se ogni sillaba contestasse il poema».
La letteratura, per non essere una foresta pietrificata, ha bisogno di ospitare gnomi, creature leggere e improbabili che ne conoscono tutte le insidie e le suggestioni e gli anfratti protettivi. Corrado Costa, colpito da un infarto, è morto nel suo studio a Reggio Emilia il pomeriggio del 9 febbraio [1991], Bisognerà raccogliere in un volume tutte le sue poesie per conservare le scintille, il garbo spiritoso, le malinconie festose di un signore degli gnomi.
(Alfredo Giuliani. Il posto del poeta, in «la Repubblica», 12 febbraio 1991, p. 33)
IL POSTO DEL POETA (1991)
Negli ultimi anni ho dovuto dire addio a troppi amici. E com’erano singolari, preziosi. Una persona all’improvviso entra nel regno delle ombre (lo chiamiamo regno non sapendone niente), Ci capita di sentire il gentile scintillìo che dentro di noi, inetta memoria, quell’ombra ha lasciato, Poi la cosiddetta vita ci trascina, finché anche noi non diventiamo ombre. Devo fermare quel trascinamento, pregare l’Etemità Divorante di avere un po’ di pazienza, perché la poesia è una facoltà-illusione di fermare il tempo, di rallentarlo e sfinirlo nel delirio dell’immobilità, e io devo parlare di Corrado Costa, il poeta più discreto, lo squisito praticante dell’understatement, colui che una sola volta ha osato enunciare una frase perentoria: «Non si sviluppa tempo nel tempo della poesia».
La poesia resta ferma, È una frase solo apparentemente perentoria, di fatto può essere una semplice constatazione. La patafisica, la dottrina burlesca dell’immaginario di cui Costa era un ilare seguace, è la scienza delle supreme constatazioni. Quando pubblicò il suo primo libretto di poesie Pseudobadelaire, da Vanni Scheiwiller nel ‘64, Costa si presentò con una brevissima «notizia»: è nato al Mulino di Bazzano (Parma) il 9 agosto 1929, vive a Reggio Emilia esercitando l’avvocatura e la patafisica.
Qualche anno dopo, in un nuovo libretto (stavolta un racconto), la notizia si allungò di qualche riga, ma il tono era tempre quello del gentiluomo un po’ bizzarro, dilettante dell’avanguardia, che si tiene (vivacemente) ai margini: Corrado Costa appartiene occasionalmente alla letteratura. Questo vuoi dire che Corrado non intendeva annoverarsi tra gli scrittori di carriera. Costoro sono più istituzioni che artisti. Tutti si aspettano che producano.
A parte alcuni introvabili libretti, e qualche volume di saggi (Inferno provvisorio, Feltrinelli 1971; La sadisfazìone letteraria, Cooperativa Scrittori 1976) oggi altrettanto difficili da reperire, Costa disperdeva le sue poesie in riviste, rivistine, plaquettes, pubblicazioni di gallerie d’arte, stampe per pochi amatori e amici, Chi conosce l’Il Mignottauro del 1970, scritto con Emilio Villa?
Ultimamente aveva inventato una collanina (ogni fascicolo era stampato in cento copie) all’insegna del delizioso Cafè De La Galerie di Reggio Emilia. Ho qui sotto gli occhi Piccola lode al pubblico delle poesia di Nanni Balestrini spirirosamente illustrato da Costa (sì, questo garbatissimo dilettante aveva talento anche per il disegno). Si dilettava, a scrivere, a vivere, con grande intelligenza, sensibilità, compostezza, ironia. Le sue malinconie scintillavano negli occhi pungenti di fantasia.
Sono tante le poesie di Costa che mi vengono in mente. Sfoglio i libretti, le piccole riviste che ho ripescato dagli scaffali, posso sceglierne appena qualche testo per dare ai lettori un’idea dell’amico scomparso. Nel volumetto Le nostre posizioni (Geiger 1972) ritrovo Conversazione da solo: «ci sono delle cose che sono / di fronte a questa pagina aperta / collegate ad altre che sono dietro le spalle / ci sono delle cose di fronte a questa pagina aperta / che sono collegate / alle cose che mancano / le cose come le cose / al centro c’è il tuo posto / al tuo posto non c’è nessuno». In una rivistina mi cattura una strofa dalla poesia Non copiare dagli occhi: «Questo / che chiamiamo scorrere / è rimanere intatto / il fiume di cui si parla / è parlare di un fiume / è questo che chiamiamo / scorrere senza foce».
Non la resa emotiva o concettuale alla lingua, ma l’attenzione minuziosa alla lingua, al pensiero della griglia di parole che la scrittura oppone alle cose: qui era probabilmente il nucleo dell’assillo poetico di Costa (un assillo mascherato e forse anche moderato dalle incombenze professionali dell’avvocato penalista). La poesia che concludeva il suo Pseudobaudelaire è carica di significati: «Così non essere legati ad un contesto — contestare / così non aspettare revisione restare condannati / così fuori tribù, fuori scheda o catalogo essere salvati / come se dio nascesse preghiera per preghiera / come se ogni ostaggio impugnasse la storia / come se ogni sillaba contestasse il poema».
La letteratura, per non essere una foresta pietrificata, ha bisogno di ospitare gnomi, creature leggere e improbabili che ne conoscono tutte le insidie e le suggestioni e gli anfratti protettivi. Corrado Costa, colpito da un infarto, è morto nel suo studio a Reggio Emilia il pomeriggio del 9 febbraio [1991], Bisognerà raccogliere in un volume tutte le sue poesie per conservare le scintille, il garbo spiritoso, le malinconie festose di un signore degli gnomi.
(Alfredo Giuliani. Il posto del poeta, in «la Repubblica», 12 febbraio 1991, p. 33)
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