« Disse che anche la poesia andava detta / in un altro modo, perché servisse ad altre schiere, / e perché diventasse movimento attivo / senza ritorno, ogni volta che il desiderio / avesse preso una forma».
"per Spatola" interventi di Hubot, Vicinelli, Costa,Faton,..
Un gesto inspiegabile. Mi corre qui l’obbligo di fare una digressione sugli accadimenti nella vita di Adriano, che in parte coinvolsero anche me. In quei primi Anni Sessanta i rapporti fra nostro padre e il suo primogenito si erano fatti difficili, sia per l’insofferenza del genitore nei confronti della scarsa visione pratica della vita da parte del figlio, sia per il carattere indipendente e ribelle di quest’ultimo. Questo non aveva però impedito che la redazione di “Bab Ilu” venisse ospitata nella casa di famiglia, in via Andrea Costa 133, dove i giovani poeti avevano anche modo di gustare l’ottima cucina di nostra madre. Fu in quel periodo che Adriano iniziò a collaborare sia a “Il Verri” sia a “Il Mulino”: questo editore gli offrì anche un lavoro retribuito in qualità di correttore di bozze, attività sovente notturna, nella quale presto lo affiancai anch’io, acquisendo insieme a lui le necessarie doti di precisione e pignoleria, che mi furono molto utili negli anni successivi. Il faticoso equilibrio si spezzò nel ’63 e, dopo un aspro litigio, Adriano andò a vivere da solo in una stanza in affitto, del centro storico, in vicolo Bolognetti: qui presero vita, su una Olivetti 22, ticchettante giorno e notte, le pagine de L’Oblò, il romanzo sperimentale che sarebbe poi stato pubblicato nelle “Comete” Feltrinelli nell’ottobre 64.
A cavallo di due eventi positivi quali la partecipazione al convegno del Gruppo 63 e la pubblicazione del suo romanzo, mio fratello si rese protagonista di un episodio drammatico, le cui motivazioni mi appaiono ancor oggi in gran parte inspiegabili, anche perché in seguito, quasi per una voluta, reciproca rimozione, né lui né io affrontammo mai l’argomento. Il fatto ebbe però pesanti ripercussioni soprattutto per nostro padre, ma anche per il resto della famiglia.
Parzialmente ricostruita, secondo logica, la scena è questa: è la notte dell’epifania, sono le due del mattino del 6 gennaio 1964. Piazza Maggiore viene attraversata da un giovanotto con un giaccone tipo militare che gli aveva dato il padre, con tasche molto profonde. Ha i capelli scarmigliati, l’aria un po’ stravolta e si avvia con passo lento ma deciso verso Palazzo D’Accursio, sede del municipio: a sinistra c’è piazza Galileo, dove si trova la sede della questura. Lì giunto, il giovanotto esita per qualche istante, poi estrae da uno dei tasconi una bottiglia con la quale armeggia per un po’ prima di lanciarla verso una finestra laterale della questura, protetta da grate. La bottiglia va in frantumi, il liquido si sparge per terra, senza fiamme o esplosioni. Immediatamente dall’edificio escono agenti armati, che vedendo il giovane e i resti di quella che appare una bottiglia molotov (anche per il forte odore di benzina), si gettano contro di lui e lo immobilizzano, mentre lui dice “Sono un anarchico individualista, è stato un gesto simbolico”. Il giovane viene perquisito, infine arrestato.
In seguito i giornali cittadini pubblicarono una breve notizia sul “gesto folle di uno studente del quarto anno di Filosofia, Bruno Spatola” (Bruno era all’anagrafe il primo nome di Adriano), il quale aveva dichiarato di aver voluto compiere solo un gesto dimostrativo, non accendendo la miccia prima di lanciare la rudimentale molotov. Nostro padre, dimenticate le divergenze, mise in moto le sue conoscenze per farlo uscire di prigione: Adriano restò a San Giovanni in Monte solo tre giorni. In seguito intervenne un avvocato di Reggio Emilia, guarda caso Corrado Costa, che al processo riuscì a farlo assolvere perché, secondo la sentenza, il fatto non costituiva reato. Alla fine questo mancato “pericolo pubblico” rimase a Bologna, anche se per lui le conseguenze di quel gesto si manifestarono una dozzina di anni più tardi, quando subì a Mulino di Bazzano, in virtù di quel precedente, una perquisizione e un fermo nell’ambito di un’inchiesta del giudice Caselli sulle Brigate rosse: inutile aggiungere che la cosa si risolse in un nulla di fatto. Nostro padre, maresciallo della Guardia di Finanza, venne invece punito con il trasferimento a Torino, insieme con tutta la famiglia, compreso il sottoscritto.Nel capoluogo piemontese l’indirizzo della nostra prima abitazione era via Ettore Fieramosca 9 bis: lo stesso, corsi e ricorsi della storia, delle prime Edizioni Geiger. [notizie bio-biliografiche]
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