L’altro scrittore che ho scoperto su Facebook si presenta con lo pseudonimo di Adriano Barra. E’ nato negli anni ’40, e ai post in presa diretta alterna la trascrizione di un diario pluridecennale. Barra è un moralista alla Piergiorgio Bellocchio, ma con in più una sprezzatura da social. Se Bellocchio nei suoi diari incollava pubblicità o ritagli di giornale con intenti krausian-flaubertiani, qualcosa di simile fa Barra con i suoi copia-e-incolla. Spesso isola l’umorismo involontario della stampa (“16 gennaio 1993 – ‘Generale, Totò è con noi’ - Titolo di Repubblica sull’arresto di Riina”); oppure fotografa dettagli di programmi tv (le mani di una presentatrice, il profilo roseo di un opinionista fisso) che riportati dal cellulare a Fb esibiscono tutta la loro tautologica oscenità.
Ma il vero tema di Barra è lo smarrimento, malinconico e grottesco, dell’ultima generazione che ha creduto alla centralità della letteratura proprio mentre veniva sostituita da televisione e giornalismo:
“Quando ero ragazzino nel mio orizzonte scolastico c’era soprattutto l’italiano, la letteratura italiana, cioè la letteratura, per farla breve. Era tutto piuttosto semplice e per me andava benissimo. La letteratura era il fatto che alla mamma piaceva Edgar Lee Masters e alla nonna invece le favole di La Fontaine. Io le amavo tutte e due, ma ero anche assolutamente incerto su quale scegliere fra i miei due amori. Erano comunque dilemmi dolcissimi, piccoli affanni senza importanza. Poi, all’improvviso, è cambiato tutto. Oppure si è visto che era già cambiato tutto da parecchio tempo. È finita la scuola, è finita la letteratura, è finita la, mia, beata innocenza. Poi è passato tanto tempo. Io ero, nel frattempo, diventato vecchio. Allora mi sono voltato indietro, un momento prima di morire, a cercare di capire che cos’era quello che non c’era più. Lo so che è tardi”.
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