venerdì 27 agosto 2010

L'albero della cuccagna

teatro del politecnico roma
macchine e combines di poesia

nessuna recinzione (se non molto bassa)

In qualsiasi luogo di questo paese, si crea un'organizzazione speciale dello spazio: viaggiando (in strada, in treno, lungo le periferie o le montagne) percepisco il congiungersi di uno sfondo con una frammentazione, il frammentarsi, il giustapporsi di campi (in senso plurale e visivo) ad un tempo discontinui e aperti (frammenti di alberi del te', di pini, di fiori color malva, una composizione di tetti neri, una scacchiera di viuzze, un agglomerato asimmetrico di case basse): nessuna recinzione (se non molto bassa). Eppure non sono mai assediato dall'orizzonte (e dal suo sentore di sogno): nessuna voglia di riempire i polmoni, di gonfiare il petto per rassicurare il mio io, per costituirmi come centro assimilatore dell'infinito: indotto all'evidenza di un limite vuoto, sono illimitato senza idea di grandezza, senza riferimento metafisico. Dal pendio delle montagne all'angolo del quartiere, tutto qui e' habitat e io sono sempre nella stanza piu' lussuosa di questo habitat: questo lusso (che e' altrove quello dei chioschi, dei corridoi, dei padiglioni di campagna, degli studi di pittura, delle biblioteche private) deriva dal fatto che il luogo non ha altro limite che il suo tappeto di sensazioni vive, di segni smaglianti (fiori, finiestre, fogliame, quadri, libri); non e' il piu' grande muro ininterrotto che definisce lo spazio, e' l'astrazione stessa dei brani di visione (di "vedute") che mi inquadrano: il muro e' abolito sotto l'iscrizione; il giardino e' una tappezzeria minerale di piccoli volumi (pietre, tracce di rastrello sulla sabbia), il luogo pubblico consiste in una serie di eventi istantanei che raggiungono il ragguardevole in un lampo cosi' acceso, cosi' sottile, che il segno s'abolisce prima che qualsiasi significato abbia avuto il tempo di "prendere".

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