martedì 3 agosto 2010

Viserba

Abitavo già nella casa nuova che, come la maggioranza delle case di Viserba di allora, era a un solo piano; era divisa in due parti, con due ingressi rivolti alla strada, ma da questa separati da cortile e giardino: il portone grande del garage dove stavano le due carrozze, quella estiva, la milord, e quella invernale, il landò, e accanto, più piccola, la porta d’ingresso della nostra abitazione che dava direttamente in cucina; dalla cucina si passava alla camera da letto, il bel lettone matrimoniale dei miei di fronte alla finestra e il mio lettino sotto la finestra, che dava a levante, piena di sole. Sotto il mio lettino più di un inverno vennero riposte le cassette dei mandarini, perché spesso il babbo i mandarini li comprava a cassetta all’ingrosso, per risparmiare. E facevano tanto profumo; e non è che non ne prendessi mai di mia iniziativa; ma non fu mai considerata una faccenda rischiosa lasciare dei mandarini a portata di bambino. Vorrà anche dire che quel bambino cominciò ad avere molto presto il senso della misura, dell’autocontrollo: perché i mandarini mi piacevano, e mi sono piaciuti sempre.
Il cesso era esterno, ma aveva il suo bravo water in ceramica made in England, e solo quello, per la verità: ma ci si poteva sedere, non era così scomodo come la latrina della nonna che era alla turca, soltanto un buco e la pedana. Non ricordo se si tirava la catenella o se bisognava rovesciare dell’acqua presa dal pozzo. So con certezza che per molti anni l’acqua è sempre stata al suo posto: nel pozzo, nel pozzo artesiano che il babbo aveva fatto battere in giardino, e il muratore gli aveva costruito accanto il lavatoio, e accanto al lavatoio gli avevano piantato il fico che facesse ombra l’estate alla mamma che lavava i panni.
Questo significa fra l’altro che la mattina ci si lavava al pozzo, all’aperto, inverno e estate, col sole o con la neve: è vero che più che altro mi lavavo soltanto le mani e la faccia, e qualche volta il collo, soprattutto se c’era la mamma. Per altre, assai più rare abluzioni si faceva scaldare l’acqua e ci si lavava in casa, in un mastello, una specie di barilotto di legno. Per la barba il babbo aveva sì il rasoio, ma più spesso andava dal barbiere. Simmetricamente opposta al gabinetto, la stalla per il cavallo, che qualche volta l’estate diventavano due, due cavalli. L’estate affittavamo il nostro appartamentino e ci trasferivamo nel garage, mentre il landò prendeva aria in giardino. Il giardino era piuttosto grande, più di cinquecento metri quadrati: in buona parte la Pasquina lo coltivava ad orto: piantava patate, fagioli, piselli, fave, pomodori, insalata e anche cavoli ricordo, cavoli cappuccio o verze. Avevamo parecchi alberi da frutto: una siepe di peri nani (che probabilmente ci avrà regalato lo zio Vici, lo zio-padrino della mamma, che era specialista in trapianti) che facevano pere grossissime (quelle di Tognacci?), almeno da mezzo chilo l’una, che si raccoglievano ad ottobre e poi si mettevano a maturare sopra l’armadio, e venivano buone per Natale: diventavano proprio un burro, come diceva il babbo, o un prosciutto, i suoi maggiori termini di confronto per indicare la bontà delle cose. Avevamo poi tre susini della regina Claudia che facevano grosse, polpose susine dorate, a quintali; ma su questi susini cui dedicai anche una delle mie prime poesie dovrò per forza ritornare (ma solo sulla carta, perché furono buttati giù come tutto il giardino, e la nostra casa-capanna, appena trent’anni fa, per costruire il condominio che c’è ora). E c’erano due peschi bradi o semi-selvatici piantati da me: avevo seminato l’osso cioè il nocciolo, due noccioli dai quali vennero fuori due peschi striminziti, quasi sempre con le foglie malaticce, che diedero per anni e anni: uno, un mucchio di piccole pesche gialle senza sugo che non maturavano mai soprattutto perché cadevano prima; l’altro invece due o tre, tre o quattro pesche all’anno, ma bellissime, grandi rosse saporitissime; veramente ci doveva anche essere un pruno piuttosto insignificante e stitico, più che altro serviva a pungermi. Poi c’erano alcuni filari di viti, e mia madre ogni anno faceva il vino. Non era tutto della nostra uva, se ne comperava un mezzo quintale da aggiungere al quintale scarso che raccoglievamo noi. Mia madre faceva il vino: me la ricordo a piedi nudi dentro il tino che schiacciava l’uva, divertendosi un mondo. L’usanza romagnola era di fare vino, mezzo vino e “quadezza” (acquaticcia)

ELIO PAGLIARANI

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