giovedì 5 maggio 2011

Pagliarani testimone di una generazione

Nell'autobiografia «Pro-memoria a Liarosa», lo scrittore mette in fila i ricordi come fossero pezzi di un fondale, dall'infanzia in Romagna all'arrivo nella metropoli, in fuga dalla provincia
C'è da prendere il toro per le corna - come ha scritto Michel Leiris nelle prime pagine di Età d'uomo, 1946 - quando si decide di scrivere un libro «che sia un atto», dove il racconto, il ricordo d'infanzia e il documento, con tanto di nomi, soprannomi, abitudini e idiosincrasie, non compongono più un collage surrealista, bensì un «partito preso di realismo». Quando, cioè, la loro scansione fa diventare la tragedia recitata, come accade per il torero, una tragedia reale, che chiede sprezzatura, tecnica, e leggerezza, e molta attenzione per non lasciarci la pelle. E sembra una specie di tauromachia, questo Pro-memoria a Liarosa (1979-2009) di Elio Pagliarani (Marsilio, pp. 319, prefazione di Walter Pedullà, postfazione di Sara Ventroni). Pro-memoria, col trattino in mezzo, per far risaltare il senso multiplo della parola-chiave: ricordati di tutte queste cose, e ricordati anche di ciò che devi farci, con queste cose, come era stato per i Ricordi di Guicciardini.

Arrabbiature omeriche
Un libro in due età: la prima sul litorale romagnolo, a Viserba, dall'infanzia dei tardi anni Venti alla fine della guerra; la seconda sugli anni di quella generazione che arrivò nelle metropoli con qualche libro in mano, per scampare alla provincia immobilizzata: «autobiografia del Noi», come la chiama acutamente Pedullà, amico di Pagliarani da mezzo secolo. E per lo sguardo rinnovato di Liarosa, la figlia dell'autore, c'è il recupero, il dragaggio della memoria profonda, il vero combattimento con il toro: presentare il conto a se stessi e scoprire di non aver finito, di tenere in sospeso il bilancio degli affetti, quando si potrà dire tutto sommato, e si potrà scoprire in sé «una qualche coerenza fra vivere e operare».
Sarà la pagina finale, questa, del Pro-memoria, che è un libro a gestazione lenta, in perfetta adesione con le abitudini del Pagliarani poeta. E ci si trovano le controfigure (le pre-figure, anzi) di Rudi, dei vitelloni imbranati, dei tassisti free lance, dei giocatori di carte e dei cacciatori di vedove; ma anche le trattorie della Lezione di Fisica, e tutte quelle arrabbiature che Pagliarani stesso definirebbe, con un aggettivo che gli è caro, «omeriche»; cose da antieroi, che in una vita possono capitare a tutti, e che fanno del torero, alla fine, lo specchio antropomorfo del povero toro, primo attore di uno spettacolo che non riguarda solo e completamente lui.

Un teatro pagano
La Romagna domina la prima parte, con quell'accento che Pagliarani, voce e corpo recitante memorabile, non ha mai perso, neanche dopo anni a Milano e mezzo secolo a Roma. L'anno del «nevone» di Amarcord, il 1929, è l'anno dell'incidente fatale all'occhio: si impara a vivere partendo da questa prima angoscia, in una scena zeppa di ferite dell'altra guerra; il tempo si muove a flashback e a immersioni tra i cortili contadini, i cavalli del padre - il vetturale Giovanni, del ramo dei Pagliarani S-ciùpàzz, quelli con lo schioppo, da starci attenti - e la casa mandata avanti dalla madre, anzi da «mia mamma», come si dice lì: chiamata ostinatamente per nome, la Pasquina. Un teatro pagano e creaturale, che la storia ha riempito di cristi, madonne e bestemmie: la Viserba degli espedienti e del contrabbando di sabbia, dei campi a mezzadria e dei bagnanti. E i bagnanti fanno un mondo parallelo, con le villette, i giardinetti, e tutti i regali e le nevrosi che sanno di città. Tra di loro, la prima vera tauromachia con la poesia: l'amicizia estiva del tredicenne Pagliarani con Giovanna Bemporad, adolescente e già traduttrice di Omero, e lettrice abbacinante di versi di Montale, Cardarelli, Ungaretti.

«Guerra e pace» in sei mesi
È il 1940. Da lì in poi ci sono i primi appunti sull'agenda Agfa, tra i quali una poesia scritta nell'inglese che gli studi allora consentivano, e che iniziava così: I was and now I am a late-man. E quanto c'è già di Pagliarani - il precocissimo, fulmineo cultore delle più vaste lentezze - in quel verso dove c'è già un tempo attraversato, testimoniabile, con una propria fisionomia? La prima esperienza lenta è Guerra e pace, letto in sei mesi, meditato, così da valere per molti anni, come scorta di tipi, situazioni e caratteri. Di lì in poi i versi, come scriveva Rilke nei Quaderni di Malte, sono esperienze. Lo dimostra questo titolo sommario di cose vissute: La guerra, il razionamento del pane. I mulini, le donne. Primi versi. Cose che potrebbero risucchiare indietro la storia, come nell'Adalgisa di Gadda, o far esplodere la digressione, come nelle memorie di Savinio; e che invece Pagliarani tratta come pezzi di un fondale, preparandosi i ricordi in fila, come tenendoli fermi, e poi scegliendone uno, mettendolo in movimento, facendogli fare una lunga spola tra i tempi.
C'è un ramoscello-frustino, appoggiato a una colonna della casa contadina, apparentemente senza scopo; diventa, molte pagine dopo, lo strumento delle uniche botte mai prese da parte del padre, dopo aver dato della bestia o dell'asino - per giusta causa - al professore di disegno delle medie di Rimini. Non si tratta di gestione della suspence. La consegna della verità non lo permetterebbe. Piuttosto, è qualcosa che ha a che fare con le mani di vernice, come se il ricordo dovesse prendere il colore giusto per rimanere vivo, per qualcuno che lo trasformerà: Liarosa, nel caso. Come se - per dire - il Guizzardi di Celati si sentisse in dovere, presa una qualche botta in testa, di diventare testimone generazionale.

Inseguendo un finale
C'è della civetteria: «ero poco attendibile, socialmente non ero credibile come primo della classe», scrive Pagliarani di sé; e c'è una passione intellettuale aperta, in più di qualche caso delusa o sospettosa (l'incontro con Fortini, e la comparsa del giovane Craxi all'«Avanti!», nel tempo in cui si sgranava l'Inventario privato, e la Ragazza Carla trovava le prime rime per andare a posto); c'è l'orgoglio di chi sa leggere il teatro come pochi (Il fiato dello spettatore esce da Marsilio nel 1972, e non sarebbe male ritrovarlo accanto a questo Pro-memoria); e il sale di chi non le manda mai a dire, a costo di fare a cornate con gente come Gassman e Eduardo.
C'è tutta l'arte, come sottolinea Sara Ventroni, di inseguire un finale. Si raccolgono le forze, e alla memoria si dà forma, perché, come ha scritto Pagliarani negli Epigrammi ferraresi, «parola ha dimostrato che memoria / conduce agli oggetti desiderati».

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