sabato 28 marzo 2009
[Reading] La luna
Beppe Salvia
a via Fermo
(la registrazione audio del reading è andata distrutta per volontà dell'autore)
venerdì 20 marzo 2009
I comici in poesia
Che cos'è il comico? Bella domanda. Sono secoli che ci si industria a cercare di venire a capo di una questione assai complessa con il guaio che i discorsi sul comico non sono comici e dunque inducono a riflessioni seriosissime. (..)In fondo la neoavanguardia fu una "rivoluzione" all'insegna del comico, dell'abbassamento.
Lavorando sul comico e praticando la comicità la neoavanguardia è riuscita a procurarsi moltissimi nemici ormai storici, perché gli sberleffi sono stati presi per diktat e le situazioni per categorie kantiane.
(..) La letteratura italiana ogni tanto avrebbe bisogno di rinnovare il proprio rapporto (nei secoli così' discontinuo) con la comicità. Proposte ironiche se ne vedono ormai poche. D'altra parte il secolo passato è vissuto di tragedie e catastrofi: il comico va annoverato fra le catastrofi. E' inevitabilmente distruttivo.
Sarebbe interessante, invece, tentare una ricognizione nei territori della comicità involontaria. Non viviamo forse un'epoca di controfigure?
E la giornata è avviata
...I vecchi del paese sono i primi ad alzarsi,
a schiudere lo scuro e a guardare il cielo, il mare che muta colore
e le isole, dicendo: la giornata sarà bella se si giudica da quest'alba.
Ed è subito giorno! e il bandone dei tetti s'accende
nell'ansia, e la rada è in preda al malessere, e il cielo al brio,
e il Narratore si slancia nella veglia!
Il mare, fra le isole, è rosa di lussuria; il suo piacere
è cosa da discutere, lo si è preso con una partita di braccialetti
di rame!
Fanciulli corrono alle rive! cavalli corrono alle rive!...
un milione di fanciulli le cui ciglia sono come umbelle...
e il nuotatore
ha una gamba in acqua tepida, ma l'altra gravita in
una corrente fresca; e le gonfrene, le eruche, l'acalèfi
dai fiori verdi e quelle radici cespitose, barbe dei vecchi muri
impazziscono sui tetti, all'orlo delle gronde,
poiché un vento, il più fresco dell'anno, s'alza, dai laghi
d'isole che s'inazzurrano,
e infrangendosi fino a quegli isolotti piatti, le case nostre,
s'insinua in seno al vegliardo
per la rada di tela fino al punto pieno di crine fra
le due mammelle.
E la giornata è avviata, il mondo
non è così vecchio che subito non abbia riso...
È allora che l'odore del caffè torna su per la scala.
XVII
« Quando avrete finito di pettinarmi, avrò finito di
odiarvi.»
Il bimbo vuole che lo si pettini sulla soglia della porta.
« Non tiratemi così i capelli. È già troppo che sia necessario
toccarmi. Quando m'avrete pettinato, v'avrò odiata ».
Intanto la saggezza del giorno prende forma d'un
bell'albero
e l'albero dondolante
che perde una manciata d'uccelli,
alle lagune del cielo squamma un verde cosl bello
che non c'è nulla di piu verde se non la notonetta.
« Non tiratemi così forte i capelli...»
XVIII
Ora lasciatemi, vado solo.
Uscirò, perché ho da fare: un insetto m'aspetta per
trattare. È gioia per me
vedere il grande occhio sfaccettato: angoloso, imprevisto,
come la bacca del cipresso.
Oppure stringo alleanza con le pietre venate di blu:
e lasciatemi lo stesso,
seduto, nell'amicizia delle mie ginocchia.
1908
consigli (consejos) come guida
Piero Leone. Guida all'ascolto del Messia di Haendel. Consigli per la lettura.
[Antonio Barbieri] Camilleri all'Alessandrina
1) che la sua scrittura ha bisogno della voce - ossia che egli, in qualche modo soggiace all'oralità, per così dire;
2) che egli ritiene che si può benissimo rinnovare la Lingua per mezzo dei dialetti - che altrimenti si perderanno - anzichè con l'ausilio, come d'uso, delle lingue straniere.
Per il punto 1), quindi, ritorna il fantasma della grana - dell'impasto sonoro che ci prende
alle spalle mentre si scrive -, richiamando un pò Barthes, che è senz'altro lo spettro della memoria - patrimonio genetico dell'umanità - che ci rulla dentro e che evochiamo, magari incosciamente, e magicamente - ritualmente - con la scrittura.
Indagare questa sorta di "demone", sondarne natura e struttura, significa calarsi - tuffarsi - nel mare di noi che ci parla, esistenzialmente, prima di tutto, mentre ci esprimiamo secondo il patto sociale di solidarietà umana che attraversa e governa la Lingua, sociostoricamente.
L'oralità è il nostro doppio, in questa guisa, quel tanto e quel qualcosa che tralasciamo, ma che ci accompagna insonne, aderendo alla comunità linguistica e costituendoci attori - attanti - del discorso. Il computer, i mezzi elettronici, della nuova e cospicua tecnologia, che ci accomoagnano, ora, racchiudono, mi sembra, al di là dell'asettica scientificità pretesa e presunta, questo tenebroso mistero di intangibilità e insondabilità della comunicazione.
Io, elettronicamente, mi dilato, esprimendomi, più narcisisticamente di quanto si pensi e, perciò, più narcoticamente "altro" d'ogni pianificazione digitale. Le parole - e lo dimostrano i nuovi esperimenti video - diventano vera e propria "materia", incandescente e vibrante, che grancassano, malgrado me, il mio vuoto di "voce", parlandomi nella distanza cosmica che, allegoricamente, fagocita l,"origine", di cui sono orfano, della parola.
Questo, ritengo, il ribaltamento essenziale: la pianificazione elettronica, ch'è materia sonora e vibrante, miscela incandescente, mi appaga, rimbalzandomi vuoto, all'infinito, dei miei precordi smarriti e dimenticati. E' una scrittura, l'elettronica, che soddisfa quante altre mai l'oralità, sia pure tradendola (in quanto fissa il vortice dell'amplificazione che mi vende al mercato delle voci, senza più che mi appartemga). In quanto, rispetto al periodo ordinato e piatto della stampa, io perdo l'orientamento e piuttosto mi labirintizzo; e seguo la virtualità del mio pensiero, astrattamente e speculativalente, più di quianto mi poissa assorbire la materialità della grafia, della stampa, che è materia di soddisfacimento visivo e manducativo.
L'oralità è la sacralità del dire, in quanto manifesta l'alito divino (Borges ha specificato che il volare del verbo - parola - è estensivo, accrescitivo, non limitatito, nei confronti della scrittura). La scrittura, come sociostoricamente codificata, fin qui, è l'ordine riconosciuto ed estraneo - rispetto al soggetto, disoggettivante -, con cui il soggetto si consegna alla comunicazione corrente ( anche quando, nel caso di poeti e scrittori, specie sperimentali, l'attaccano per strizzarne ogni libertà espressiva: l' individualità mitopoietica dell'arte è il salto, il conflagrarsi della collettività, per il massimo riconoscimento collettivo d' ogni istanza individuale che il socius ha eluso o deluso).
Dei "dialetti", per il punto 2) di Camilleri - in lui il siciliano - è un'ipotesi - è il tarlo che baca la mela, nel senso che esprime con vigore le pulsioni, direttamente, che poi la mediazione socio-storica stempera -, mi sembra, accantonandone ogni recupero romant ico e prelapsario alla Pasolini - l'universalità semantica -, mi sembra importante il registro espressionista - deformante rispetto al Centro - di Gadda.
In questo senso i dialetti equivalgono alle lingue straniere: straniano, raffreddano, condensano, in modo che il testo, insomma, dal suo stesso interno, possa desiderarsi e inseguirsi "altro".
mercoledì 11 marzo 2009
martedì 10 marzo 2009
[Arte] Carlo Cattaneo
Cattaneo, che aveva 79 anni, viveva a Roma da molti anni, ma aveva comunque mantenuto forti legami con Alassio (..) Amico e frequentatore del gruppo di maestri di cui facevano parte Carlo Levi, Giovanni Gromo, Giuseppe "Baby" Bechi, Galeazzo Viganò e Felice Andreasi, Cattaneo fu anche un finissimo scultore e ceramista. Cattaneo, che era nato ad Alassio, andò a studiare a Roma all'Accademia delle Belle Arti e la prima mostra la fece nel 1949, quest'anno avrebbe dunque tagliato il traguardo di un sessantennio di mostre.
NOTA segue
sabato 7 marzo 2009
Riviello a via Montegiordano [1987]
Più a sud del sud c'è sud
sud e sud, tanto sud che
ancora a sud non c'è che sud
a perdita d'occhio sud
all'infinito sud,
solo alla fine dei sud,
si fa solo per dire,
c'è l'ultimo sud,
il sud più sud che mai
il sud-sud, il suddissimo,
poi c'è il Sud-Africa.
(1989)
Congedo del viaggiatore cerimonioso
Giorgio Caproni, Congedo del viaggiatore cerimonioso, in Congedo del viaggiatore cerimonioso & altre prosopopee, Milano, Garzanti, 1966
Amici, credo che sia
meglio per me cominciare
a tirar giù la valigia.
Anche se non so bene l’ora
d’arrivo, e neppure
conosca quali stazioni
precedano la mia,
sicuri segni mi dicono,
da quanto m’è giunto all’orecchio
di questi luoghi, ch’io
vi dovrò presto lasciare.
Vogliatemi perdonare
quel po’ di disturbo che reco.
Con voi sono stato lieto
dalla partenza, e molto
vi sono grato, credetemi,
per l’ottima compagnia.
Ancora vorrei conversare
a lungo con voi. Ma sia.
Il luogo del trasferimento
lo ignoro. Sento
però che vi dovrò ricordare
spesso, nella nuova sede,
mentre il mio occhio già vede
dal finestrino, oltre il fumo
umido del nebbione
che ci avvolge, rosso
il disco della mia stazione.
Chiedo congedo a voi
senza potervi nascondere,
lieve, una costernazione.
Era così bello parlare
insieme, seduti di fronte:
così bello confondere
i volti (fumare,
scambiandoci le sigarette),
e tutto quel raccontare
di noi (quell’inventare
facile, nel dire agli altri),
fino a poter confessare
quanto, anche messi alle strette,
mai avremmo osato un istante
(per sbaglio) confidare.
(Scusate. È una valigia pesante
anche se non contiene gran che:
tanto ch’io mi domando perché
l’ho recata, e quale
aiuto mi potrà dare
poi, quando l’avrò con me.
Ma pur la debbo portare,
non fosse che per seguire l’uso.
Lasciatemi, vi prego, passare.
Ecco. Ora ch’essa è
nel corridoio, mi sento
più sciolto. Vogliate scusare).
Dicevo, ch’era bello stare
insieme. Chiacchierare.
Abbiamo avuto qualche
diverbio, è naturale.
Ci siamo - ed è normale
anche questo - odiati
su più d’un punto, e frenati
soltanto per cortesia.
Ma, cos’importa. Sia
come sia, torno
a dirvi, e di cuore, grazie
per l’ottima compagnia.
Congedo a lei, dottore,
e alla sua faconda dottrina.
Congedo a te, ragazzina
smilza, e al tuo lieve afrore
di ricreatorio e di prato
sul volto, la cui tinta
mite è sì lieve spinta.
Congedo, o militare
(o marinaio! In terra
come in cielo ed in mare)
alla pace e alla guerra.
Ed anche a lei, sacerdote,
congedo, che m’ha chiesto s’io
(scherzava!) ho avuto in dote
di credere al vero Dio.
Congedo alla sapienza
e congedo all’amore.
Congedo anche alla religione.
Ormai sono a destinazione.
Ora che più forte sento
stridere il freno, vi lascio
davvero, amici. Addio.
Di questo, sono certo: io
son giunto alla disperazione
calma, senza sgomento.
Scendo. Buon proseguimento.