domenica 8 settembre 2013

akríbeia

 La voce colta acribìa significa «esattezza, meticolosa precisione (in una ricerca, in un lavoro filologico e simili)». La definizione è tratta dal Vocabolario della lingua italiana Treccani, che indica nel greco akríbeia ‘precisione’ l’origine del vocabolo italiano. In italiano, peraltro, l’antica parola akríbeia viene ripresa dai dotti studiosi di filologia soltanto verso la fine dell’Ottocento. Forse acribia ci è giunta transitando prima attraverso il tedesco Akribie

Aldo Tagliaferri, Corrado Costa «una sorta di Eric Satie» dell'avanguardia
Parole per una utopia anarchicamente garantita
Niva Lorenzini
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«C’era una volta…». Sì, c’è stato un tempo, neppure troppo remoto – tra gli inizi degli anni Sessanta e la fine dei Settanta – in cui si credeva possibile rifondare il mondo, trasformando un movimento di idee in moto di rivolta contro il conformismo, la sclerosi, le disuguaglianze, la violenza di una società basata sullo sfruttamento, che marginalizzava il dissenso, espropriava il vissuto. Se ne legge testimonianza in una rivista ricomparsa da poco, davvero preziosa per chi, per ragioni anagrafiche, non avesse potuto seguire dal vivo dibattiti e contrasti, tensioni e contrapposizioni. «Quindici», riproposta ora in antologia da Feltrinelli per le cure di Nanni Balestrini, ne dà articolato riscontro: e davvero conserva piena efficacia, nella sua totale inattualità, quel dibattito tra ragioni della letteratura e della politica, della militanza e delle controculture che si sovrapponevano e convivevano, appassionate ed estreme.
Crudeltà come appetito di vita
Volevamo la luna, intitola Cortellessa una sua densa e lucida postfazione, in cui passa in rassegna temi e modi di quel dibattere, siglato da letterati e giornalisti, artisti, architetti, scienziati, esponenti dell’antipsichiatria, che rispetta pienamente le intenzioni indicate nell’editoriale da un Andrea Barbato misurato e caustico: puntare al «parziale» e al «contraddittorio», promuovere il dubbio e il disordine, contro l’ordine delle certezze. E si tocca con mano una distanza, una separatezza, se non proprio uno spaesamento, con tutte le conseguenze del caso.
Ma non di questo intendo parlare, in una stagione come la nostra che di Sessantotto, della sua complessità, si sta variamente occupando con indagini rigorose, ma è anche chiamata a sensibilizzarsi tempestivamente, con urgenza, per ciò che intorno accade di pericoloso, di irrimediabile, qui e ora. Voglio dedicare piuttosto questa breve nota a due collaboratori di «Quindici», per niente occasionali, dal momento che il primo, Adriano Spatola, ne è redattore fin dal primo numero, insieme con Giulia Niccolai e Letizia Paolozzi, e il secondo, Corrado Costa, ne è collaboratore fisso, perlomeno all’inizio, e ne influenza una linea sadiana e artaudiana: quella della Letteratura della crudeltà (una crudeltà come appetito di vita, rigore cosmico, necessità implacabile), se ci si consente di sottrarre il titolo a uno scritto di Edoardo Sanguineti comparso sul numero d’esordio, insieme con una provocatoria pagina del poeta-avvocato Costa, Pornolaroid (seguita, nel secondo numero, da un’altra, Neosade, non meno irriverente, a proseguire in qualche modo la linea di una letteratura che pratichi – lo indicava Sanguineti – la «categoria del cinismo violento»).
Nelle zone del non detto
Ciò che Spatola e Costa si propongono di attuare, in modi differenziati nell’applicazione ma non lontani nelle intenzioni, è la destrutturazione del linguaggio, l’introduzione di un «disordine» controllatissimo, eppure esplosivo ed eversivo, che penetra tra le giunture della sintassi, libera la lettera dallo schema grafico e tipografico e la poesia dalla separatezza che le preclude interferenze con le arti, il teatro, la musica, il cinema. Entrambi vogliono dilatare lo spazio della scrittura, esporla al contatto con il momento visivo e con la voce, con l’esecuzione, ritenendo la «poesia totale» l’unica maniera – lo scrive Spatola su «Quindici» sotto il titolo Poesia, apoesia e poesia totale – di «usare positivamente e concretamente, nella direzione di una utopia anarchicamente garantita», l’esperienza del linguaggio. Ed entrambi vogliono poi provocare la «dicibilità» investigando anche le zone del non detto, delle rifrazioni, del doppio, fino a rendere udibile, visibile – lo fa soprattutto Costa – il vuoto e l’afasia,
Inutile nasconderlo: non li si conosce, Spatola e Costa, se non in nicchie di affezionati dell’avanguardia e di estimatori delle sue propaggini emiliane, localizzabili tra Reggio Emilia e Parma, nella cittadella perimetrata del Mulino di Bazzano, sorta di corte rurale protetta di proprietà della famiglia Costa sulla sponda parmense del fiume Enza. Lì, in un isolamento ancestrale (il telefono a qualche chilometro di distanza), Adriano Spatola e Giulia Niccolai si ritirano a conclusione dell’esperienza di «Quindici»: e tengono, sull’ampio tavolo di cucina, tra profumi di minestrone e spezzatino e aromi di colla e carta, riunioni redazionali del marchio editoriale Geiger, discutono i numeri di «Tam Tam», «Baobab», «Cervo volante», fondano una minuscola tipografia artigianale autogestita, sacerdoti laici di una pratica del libro-manufatto condivisa da amici dell’Italia e del mondo.
Fin qui la cronaca, gli aneddoti, ricostruiti con discrezione e affetto da Eugenio Gazzola nel volume fresco di stampa «Al miglior mugnaio». Adriano Spatola e i poeti del Mulino di Bazzano, uscito presso Diabasis (pp. 215, euro 17): a quelle pagine rimando, così attente nel definire il sapore del luogo e lo scandirsi del tempo in cui prende corpo una scrittura che a poco a poco viene svelata e illustrata, dallo sperimentalismo degli inizi affidati alla rivistina «Bab Ilu» (due soli numeri nel ’62) o dalle prove di Zeroglifico, iniziate nel ’65, che si collocano tra poesia concreta e poesia lineare, azzerando il valore semantico della lettera per consentirle nuove operazioni di rimontaggio, fino alla dilatazione della parola oltre i confini del soggettivo e il perimetro della pagina, per affrontare l’«urto dei nuovi frammenti», da Diversi accorgimenti (1975) alla Piegatura del foglio (1983), con le allegorie da fine della storia che le si connettono.
Non è insomma solo l’autore di Verso la poesia totale (1969), Spatola, o lo sperimentatore (il poeta visivo) che si pone al confine tra letteratura e arte, o l’esecutore (il poeta corporale) di performances divenute celebri per le reiterazioni di parole (celeberrima Aviation aviateur…): è poeta «senza aggettivazione», che il testo di Gazzola aiuta a riscoprire nella sua intensità, fatta di antimelodia e ribaltamenti tematici, ritmi giocosi e scacco della rappresentazione, fino ad accettare la sfida del silenzio o ad affidare al corpo, alla sua sola presenza, l’atto del comunicare.
Tacere, scriveva Sartre, non è «essere muti», ma rifiutarsi di parlare, e dunque «parlare ancora». Lo ricorda Simonetta Bondoni in una pagina dedicata questa volta a Costa, alla sua «cosciente afasia», all’interno di un volume curato ancora da Gazzola che ne restituisce la fisionomia a tutto tondo (Corrado Costa, The complete Films. Poesia Prosa Performance, Le Lettere, collana «fuoriformato», pp. 352, euro 35, con un dvd di Daniela Rossi). Proprio il poeta-avvocato (difensore di Tondelli in occasione della denuncia di Altri libertini) si rivela, di pagina in pagina, il massimo esponente di una scrittura dello sdoppiamento, della perdita senza recupero di una parola abusata. Nel rovescio, nel «retro», va indagato, per Costa, il senso abraso: ed è davvero straordinaria la sua capacità di rendere fisica, attraverso la negazione, la concretezza di ciò che non viene pronunciato, con la levità eversiva e l’ironia di un surrealismo giocoso, da patafisico che smaschera i perbenismi e gli usi strumentali del linguaggio.
Un «signore degli gnomi», chiosava con la consueta acribia critica Alfredo Giuliani ricordandolo sulla «Repubblica» il 12 febbraio 1991, a tre giorni dalla morte: una «creatura leggera» che si dilettava «a scrivere, a vivere, con grande intelligenza, sensibilità, compostezza, ironia».
Un grande dilettante
Auspicava, Giuliani, che qualcuno raccogliesse in volume tutte le sue poesie per conservarne – scriveva – «le scintille, il garbo spiritoso, le malinconie festose». 
È stato fatto. E fa bene al cuore rileggerlo e riascoltarlo, il poeta dello Pseudobaudelaire (1964), delle Nostre posizioni (1972), di The Complete Films (1983), «fool amabile e inaffidabile», secondo Cortellessa: poeta e basta, da apprezzare nell’irriducibilità del suo volerci convincere, «testoni» che siamo, a sollevare la superficie, per scoprire, insieme con l’insopportabilità delle «ferite narcisistiche», il rovescio delle apparenze (l’«enigma della vita, l’assenza, il buco al cuore che ci portiamo dentro», scrive Giulia Niccolai).
Rileggerlo come «grande dilettante», saggista, vignettista, scrittore di teatro, per cogliere quel suo «vuoto lasciato pieno» (così Balestrini nella poesia A Corrado) e cautelarci intanto dalle semplificazioni, dall’omologazione. Parliamone, di Costa e di Spatola, perché non è tempo di clandestinità per il pensiero.
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Articolo apparso su Il Manifesto mercoledì 14 maggio 2008

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