Quant'è bizzarro e giudizioso il caso, certe volte. Fortuite coincidenze editoriali ci hanno rimesso sotto gli occhi l'opera poetica di due scrittori diversissimi e ciò nondimeno individuabili nella medesima costellazione: Antonio Delfini (1908-1963) e Corrado Costa (1929-1991). Potremmo chiamarli: quelli dall'immaginazione eccentrica, i giocolieri malinconici e stravaganti (malinconia d'impronta baudelairiana), i marginali per vocazione. Ma, oltre questa generica collocazione, si danno alcuni motivi per accostarli e per capire ciò che li collega pur essendo tanto diversi.
Di Delfini, che è sempre stato e resta un autore di culto per una cerchia di lettori affezionati, sono soprattutto noti gli incantevoli racconti. Le sue Poesie della fine del mondo, pubblicate da Feltrinelli nel 1961, le si è lasciate cadere nell'oblio per decenni. Strana indifferenza verso un libro singolar-profetico, villano, inferocito e tenero, perennemente provocatorio e liberatorio. Gli scritti sottilmente funamboli e i disegni di Corrado Costa erano conosciuti, e nemmeno sempre, nell'ambito e nei dintorni della neoavanguardia. Sparsi la maggior parte in piccole riviste, plaquettes, cataloghi di gallerie d'arte, stampe per pochi amatori e amici, ci auguravamo nel '91 in queste pagine che qualcuno li raccogliesse in volume.
Di Delfini, che è sempre stato e resta un autore di culto per una cerchia di lettori affezionati, sono soprattutto noti gli incantevoli racconti. Le sue Poesie della fine del mondo, pubblicate da Feltrinelli nel 1961, le si è lasciate cadere nell'oblio per decenni. Strana indifferenza verso un libro singolar-profetico, villano, inferocito e tenero, perennemente provocatorio e liberatorio. Gli scritti sottilmente funamboli e i disegni di Corrado Costa erano conosciuti, e nemmeno sempre, nell'ambito e nei dintorni della neoavanguardia. Sparsi la maggior parte in piccole riviste, plaquettes, cataloghi di gallerie d'arte, stampe per pochi amatori e amici, ci auguravamo nel '91 in queste pagine che qualcuno li raccogliesse in volume.
Hanno pensato due piccoli editori a far apparire, pressoché contemporaneamente, la ristampa delle poesie delfiniane e una buona antologia dei testi paradossali e fantasiosamente enigmatici di Costa. Pubblica Poesie della fine del mondo e Poesie escluse, a cura di Daniele Garbuglia, la Quodlibet (Macerata, Vicolo Ulissi 4; pagg. 144, lire 22.000). Cose che sono parole che restano, testi e disegni di Corrado Costa a cura di Aldo Tagliaferri, esce da Diàbasis (Reggio Emilia, viale Isonzo 8; pagg. 204, lire 30.000). È giusto segnalare che due Biblioteche civiche - quella di Modena dedicata appunto a Delfini e la Panizzi di Reggio Emilia - hanno contribuito alle spese di edizione.Delfini era modenese. E Costa, nato in provincia di Parma a pochi passi dal territorio di Reggio, è cresciuto e ha sempre vissuto in quest'ultima città.
Ai tempi del Gruppo ’63, Costa proponeva di fondare «il gruppo dei poeti estensi, sotto l'egida di Ciro Menotti, contro i poeti di Parma». Tra i quali si distinguevano, inutile dirlo, influenti detrattori della neoavanguardia. E Delfini, per via di una devastante delusione amorosa, prese a odiare Parma con tale furore che non si contentò delle ingiurie e invettive scatenate nelle Poesie della fine del mondo, ma scrisse un avventuroso e attraente saggio, pubblicato nella rivista Il Verri, per dimostrare che La chartreuse de Parme di Stendhal era in realtà ispirato da personaggi ed eventi della cronaca modenese.
Costa conobbe di persona Delfini nel 1962 e lo invitò «a mangiare le anguille a Comacchio». Episodio così poco trascurabile che lo ricordò nel 1989 in una allegra autobiografia lunga appena due pagine. I due mattocchi emiliani, sebbene divisi da una generazione e alquanto dissimili per temperamento, avevano origini comuni nel surrealismo e nella patafisica, condividevano una segreta stramberia di visioni, che poi manifestavano in forme opposte e ugualmente radicali.
Spero che Poesie della fine del mondo e l’antologia di Costa non patiscano troppo l’insufficiente distribuzione nelle librerie che affligge tutti i piccoli editori. Perciò ho indicato più sopra l’indirizzo di Quodlibet e Diàbasis (casuale e forse non insignificante affinità nel gusto «umanistico» della denominazione, come per dire: siamo piccoli, ma speciali). Insomma ad autori ritenuti eccentrici e marginali rispondono editori fieri di dichiararsi eccentrici e marginali anche nel nome.
Un buon lettore è per definizione versatile e flessibile; e ha imparato in qualche modo, per istinto o riflessione, che i buoni poeti mirano, usando le parole, a oltrepassarne il senso. Perfino il linguaggio osceno, poniamo, nella potenza espressiva di un Gioachino Belli, acquista una impensata valenza comico-tragica. Ora, l’irrisione esulcerata e forsennatamente grottesca di Delfini, e lo stile leggero, parodico-concettuale di Costa, derivanti tutt’e due dai rami patafisico-surreali, risultano, anziché marginali, centralissimi, se siamo disposti a cogliere il piacere delle loro opposte forme. «Viviamo di catastrofi», constatò con pacata ilarità il fondatore della patafisica Alfred Jarry.
L’impulso profetico-catastrofico travolge e al tempo stesso sorregge le poesie di Delfini nel furore e nel gioco dell’insensatezza, pulsante di quel senso sfigurato che soltanto la poesia vi scopre. Corrado Costa muove dalla stessa percezione del mondo sfregiato da una ricognizione critica del personaggio poetico moderno, quell’antieroe minacciato dall’orrore e dall’assurdo che fa la sua prima apparizione nelle Fleurs du Mal di Baudelaire.
Non per caso la prima raccolta di Costa è intitolata Pseudo-baudelaire (Scheiwiller 1964). In quei testi di esordio si consuma la catastrofe del linguaggio simbolico. Il poeta batte e ribatte su una situazione di pericolo estremo: oggi niente è più plausibile. Il Male è diventato un sosia del Bene (famosa poesia «I due passanti»: quello distinto con il vestito grigio e quello distinto con il vestito grigio, «uno che tortura e l’altro senza speranza»). Giustificare la storia significa eleggere il carnefice a vittima del Sistema. Non si distingue più il giusto dal giustiziere; «non è previsto ai vinti morire per nessuna vittoria/ l’esecutore resta ancora in carica pro e contro i fucilati».
Poiché non c’è altro da fare per smascherare l’ambiguità del linguaggio simbolico che pretende di significare questa situazione, Costa si avvierà dopo Pseudobaudelaire verso un’esperienza ulteriore: il poeta si dedicherà a svuotare le parole di tutte le significazioni fittizie, le spoglierà di ogni intenzione simbolica. Ora le parole più semplici e nude predicano senza trucchi espressivi il concreto invisibile, la sfuggente totalità in cui abitano; la complessità e la fragilità intere della situazione. Proviamo a leggere questa «Conversazione da solo», che a prima vista può sembrare un gioco di destrezza concettuale:
Invece è proprio quest’ultima che Delfini aggredisce inventando i suoi toni più grandiosi nell’invettiva, nella farsa del nonsense, nel grand-guignol (vedi la poesia «O Goro» tra le escluse, che è anche un truce allucinato racconto), nel turpiloquio, nella derisoria ricorrente minaccia di guerra agli ignobili e di vendetta contro gli «assassini».
Il poeta lotta contro le parole e contro gli assassini degli uomini e delle parole. Oscilla tra la disperazione furente e l’esaltazione: «È inutile distruggere gli anni, / inutile la Gran Situazione: / Non c’è più salvezza – più niente. / Rivoluzione, parola trombone» (scrive nel novembre 1958). -«Oggi sono il capo di una grande rivolta. / Mi ascoltan gli uccelli nel cielo / mi ascoltano i cani stavolta!» (conclude la poesia «Torna la liberta» dell’agosto 1959). A rendere abitabile il mondo che sta finendo penseranno gli squadroni dei fedeli d’Amore, guidati da «una Bambina con una rosa in mano», figlia di Guido Cavalcanti! Gli ignobili imperversano e le parole del poeta sono la realtà:
Io trovo superba la conclusione delle Poesie della fine del mondo: Han suonato alla porta: / Niente ordini per noi comandanti. / Niente ordini per noi qui del cielo.
Costa conobbe di persona Delfini nel 1962 e lo invitò «a mangiare le anguille a Comacchio». Episodio così poco trascurabile che lo ricordò nel 1989 in una allegra autobiografia lunga appena due pagine. I due mattocchi emiliani, sebbene divisi da una generazione e alquanto dissimili per temperamento, avevano origini comuni nel surrealismo e nella patafisica, condividevano una segreta stramberia di visioni, che poi manifestavano in forme opposte e ugualmente radicali.
Spero che Poesie della fine del mondo e l’antologia di Costa non patiscano troppo l’insufficiente distribuzione nelle librerie che affligge tutti i piccoli editori. Perciò ho indicato più sopra l’indirizzo di Quodlibet e Diàbasis (casuale e forse non insignificante affinità nel gusto «umanistico» della denominazione, come per dire: siamo piccoli, ma speciali). Insomma ad autori ritenuti eccentrici e marginali rispondono editori fieri di dichiararsi eccentrici e marginali anche nel nome.
Un buon lettore è per definizione versatile e flessibile; e ha imparato in qualche modo, per istinto o riflessione, che i buoni poeti mirano, usando le parole, a oltrepassarne il senso. Perfino il linguaggio osceno, poniamo, nella potenza espressiva di un Gioachino Belli, acquista una impensata valenza comico-tragica. Ora, l’irrisione esulcerata e forsennatamente grottesca di Delfini, e lo stile leggero, parodico-concettuale di Costa, derivanti tutt’e due dai rami patafisico-surreali, risultano, anziché marginali, centralissimi, se siamo disposti a cogliere il piacere delle loro opposte forme. «Viviamo di catastrofi», constatò con pacata ilarità il fondatore della patafisica Alfred Jarry.
L’impulso profetico-catastrofico travolge e al tempo stesso sorregge le poesie di Delfini nel furore e nel gioco dell’insensatezza, pulsante di quel senso sfigurato che soltanto la poesia vi scopre. Corrado Costa muove dalla stessa percezione del mondo sfregiato da una ricognizione critica del personaggio poetico moderno, quell’antieroe minacciato dall’orrore e dall’assurdo che fa la sua prima apparizione nelle Fleurs du Mal di Baudelaire.
Non per caso la prima raccolta di Costa è intitolata Pseudo-baudelaire (Scheiwiller 1964). In quei testi di esordio si consuma la catastrofe del linguaggio simbolico. Il poeta batte e ribatte su una situazione di pericolo estremo: oggi niente è più plausibile. Il Male è diventato un sosia del Bene (famosa poesia «I due passanti»: quello distinto con il vestito grigio e quello distinto con il vestito grigio, «uno che tortura e l’altro senza speranza»). Giustificare la storia significa eleggere il carnefice a vittima del Sistema. Non si distingue più il giusto dal giustiziere; «non è previsto ai vinti morire per nessuna vittoria/ l’esecutore resta ancora in carica pro e contro i fucilati».
Poiché non c’è altro da fare per smascherare l’ambiguità del linguaggio simbolico che pretende di significare questa situazione, Costa si avvierà dopo Pseudobaudelaire verso un’esperienza ulteriore: il poeta si dedicherà a svuotare le parole di tutte le significazioni fittizie, le spoglierà di ogni intenzione simbolica. Ora le parole più semplici e nude predicano senza trucchi espressivi il concreto invisibile, la sfuggente totalità in cui abitano; la complessità e la fragilità intere della situazione. Proviamo a leggere questa «Conversazione da solo», che a prima vista può sembrare un gioco di destrezza concettuale:
ci sono delle cose che sono di fronte a questa pagina aperta / collegate ad altre che sono dietro le spalle / ci sono delle cose di fronte a questa pagina aperta / che sono collegate / alle cose che mancano / le cose come le cose / al centro c’è il tuo posto / al tuo posto non c’è nessuno.Non è piuttosto un lucido autoritratto del pensiero che si stacca da sé, facendo il giro di ciò che è presente, di ciò che è virtuale, di ciò che manca e di ciò (il soggetto, l’io) che viene a mancare? Non c’è dubbio che Costa ci conduce in un limbo spaesato, che sta oltre quella realtà degradata e orrenda di cui non si può più parlare.
Invece è proprio quest’ultima che Delfini aggredisce inventando i suoi toni più grandiosi nell’invettiva, nella farsa del nonsense, nel grand-guignol (vedi la poesia «O Goro» tra le escluse, che è anche un truce allucinato racconto), nel turpiloquio, nella derisoria ricorrente minaccia di guerra agli ignobili e di vendetta contro gli «assassini».
Il poeta lotta contro le parole e contro gli assassini degli uomini e delle parole. Oscilla tra la disperazione furente e l’esaltazione: «È inutile distruggere gli anni, / inutile la Gran Situazione: / Non c’è più salvezza – più niente. / Rivoluzione, parola trombone» (scrive nel novembre 1958). -«Oggi sono il capo di una grande rivolta. / Mi ascoltan gli uccelli nel cielo / mi ascoltano i cani stavolta!» (conclude la poesia «Torna la liberta» dell’agosto 1959). A rendere abitabile il mondo che sta finendo penseranno gli squadroni dei fedeli d’Amore, guidati da «una Bambina con una rosa in mano», figlia di Guido Cavalcanti! Gli ignobili imperversano e le parole del poeta sono la realtà:
Mercanti, banchieri, avvocati, ingegneri, cocchieri, / non siete che polvere di rotti bicchieri, / di cui faremo carta vetrata per sfregiare la faccia / dei nostri irricordabili ricordi di ieri.Delle parole Delfini brucia le scorie morte: «È mio dovere scrivere la mala poesia». Il suo anticanzoniere amoroso e civile è una rivolta iperbolica contro gli oltraggi della vita-morte. Digrignando, il poeta se la gode infilando nei versi collages, filastrocche oscene, deformazioni nominali, metaplasmi e metatesi burlesche. Ma a tratti Delfini è mirabilmente patetico e preso da una sbandata pietà per l’impazzare del Male. Pietà che, non sia mai, potrebbe colpirlo per la «sozza e immonda» antibeatrice che è la sua musa alla rovescia:
Se tu ti ammalassi e tu chiedessi pietà… / che orrore dovertela concedere che orrore! / Non ti ammalare – ti prego – non ti rinsavire / non diventare santa non ti riscattare! / Sarebbe veramente schifoso doverti perdonare. / La mia vendetta che domando per te è questa: / come adesso sei e fosti, stronza resta!Mentre prega, invoca, maledice, il poeta si ricorda di Baudelaire, «della sera che dice sempre io t’amo» (On se souvient de Baudelaire la nuit), si ricorda dell’infinito e dell’oblio.
Io trovo superba la conclusione delle Poesie della fine del mondo: Han suonato alla porta: / Niente ordini per noi comandanti. / Niente ordini per noi qui del cielo.
Li si legga pure poco e male, i poeti non possono essere smentiti.
[«La Repubblica» 22-09-1995]
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