sabato 2 marzo 2013

a chi intraprende il viaggio iniziatico

intro_inizierei il discorso dal nono episodio dell’Ulisse “Scilla e Cariddi”, là dove Stephen Dedalus, uno dei protagonisti del macrotesto di tutta l’opera joyciana, e che significativamente si chiama appunto Dedalus, ovvero l’artefice che costruì un labirinto, prendendo in considerazione il testo di Shakespeare afferma: “A man of genius makes no mistakes. His errors are volitional and are the portals of discovery” [Un uomo di genio non fa errori. I suoi sono errori voluti e sono portali di scoperta]. È molto interessante il contrappunto tra “mistakes”, che sono veri errori, e “errors”, che sono più segno di erranza, di movimento, di nomadismo.

{[questo segreto non è un segreto ineffabile (IdDocumento=177)] ma è la difficoltà}  In un famoso saggio di John Ruskin del 1864 sull’arte della lettura, Of Kings’ Treasuries [in Sesa-me and Lilies], poi tradotto nel 1906 da Proust, l’autore sottolinea come la lettura deve essere un nutrimento spirituale, non la sostituzione del nutrimento spirituale, ma una parte di esso e come i libri che veramente nutrono sono i libri che durano per sempre, i libri che hanno un segreto, e non i libri del momento, che sono soprattutto di comunicazione diretta. Naturalmente questo segreto non è un segreto ineffabile, ma è la difficoltà che essi oppongono allo sguardo del lettore, perché il lettore trovi uno spazio potenziale di pensiero all’interno del testo, pensiero che riesca a sposare la forma col contenuto e che permetta appunto di nutrire lo stesso lettore. Proust, traducendo Ruskin, dice che l’oro che si trova nel testo non è l’oro che ha messo lo scrittore, ma il lettore; cioè il lettore che prende possesso di questo spazio potenziale, commenta Proust, è colui che poi troverà l’oro, il filone aureo in sé medesimo. In Joyce questo spazio potenziale riguarda un linguaggio segreto, tanto è vero che i suoi quattro libri finiscono in una “non lingua” che è quella appunto del Finnegans Wake, che è come una lingua aurorale, la lingua prima che sia codificata, quella che tutti i poeti conoscono, il mormorio della musa. In Finnegans Wake ritroveremo la parola quasi lallazione, quasi suono, che ancora non prende forma e che non si disintegra, ma che si orchestra e che diventa sempre più complessa e più ricca nel tempo e che attraverso le indagini critiche, invece di risolvere il proprio segreto, concede sempre uno spazio nuovo a chi intraprende il viaggio iniziatico per mettersi in rapporto passionale, ma anche critico, colla propria capacità simbolizzante, con la propria lingua, ma con anche quella di altri popoli di altri paesi. In questo senso Joyce è lo scrittore più cosmopolita.

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