Quando ho visitato la Grecia per la prima volta, avevo sedici anni, andavo al liceo e ci sono andata con i miei. Avevo delle forti aspettative all’idea di vedere le opere del Museo dell’Acropoli, ma quando me le trovai dinnanzi, riuscii solo a considerarle belle e non mi dissero niente di più. Non mi emozionarono. Loro stavano là e io stavo di qua. Ebbi una grossa delusione.
Quasi lo stesso effetto me lo fecero nel 1968, quando tornai ad Atene e avevo 34 anni.Ma quando le rividi per la terza volta a metà degli anni Novanta, ogni singola scultura sembrava far parte della mia vita come un vecchio amico finalmente ritrovato: il mito non era più solo racconto, la vita l’aveva reso reale, archetipo ed esperienza.
Cercherei di spiegare come tutto ciò possa essere accaduto, secondo ciò che finora sono riuscita a capire.
Ma per passare finalmente alla mia poesia, l’iniziale poesia “come gioco”, quella “sperimentale” per intenderci, farei notare come una sorta di filo sotterraneo attraversi quasi tutti i miei testi, nei quali, tramite il plurilinguismo o il gioco di parole, faccio notare che ciò che noi leggiamo e interpretiamo in un modo, può anche voler dire qualcos’altro di completamente diverso.
Quale esempio, leggerei la E. V. Ballad, la Ballata a Emilio Villa, nonché la “traduzione” che ne ho fatto:
E. V. BALLAD
Evening and the Everest
ist vers la poetry leaning. Er
isst er rit er tells a tale
des bear’s der splash! mit cul poilu
nell’acqua bassa um la forelle
zu farla saltar fuori
to make the trout jump out.
Puis il se léve la trota nella paw
und isst und rit und ist der dichter
every very big indeed
so froh und bär so rare und weiter.
Ça au National Park.
But all America la calzi
come un guanto
Zeus Rebelais
il t’amusait ce luna-park
you fed computers coded data
coddled eggs cod-fish balls
un causset la fricassee
un potage Dame Edmée des côtes
de porc grand-mère les couilles
du père and out came brunt
H ah quel frisson quel high-toned test
quel high-speed text
tapioca! un bel incest
er mejo the best.
Off Frisco uper the bay
when rose fingere’d dawn
shone forth that day
nach den orkan dem hurrican
su quella piramide di phoques
(es war Phil hip that west coast mentor
qui me l’a dit)
you saw Nausicaa and like a mountain lion
dal fitto groviglio dei rami
you broke a spray
Athena auch war da she touched your hair
in a certain way
shed grace
and combed it col pettinino azzurro.
Ma sul canto sesto there’s nothing more
to say.
Ich wollte ganz for ever
once and for all
à la manière de ev
von ev erzählen et
sinon la v qui est si
véri table eventuell
evidenziar la e.
Questa E. V. Ballad (Ballata E. V.), dedicata a Emilio Villa, è la prima di 12 ballate polilinguistiche (scritte tra il 1975 e il 1977), raccolte nella sezione Russky Salad Ballads e apparse in Harry’s Bar e altre poesie (1969-1980), Feltrinelli, 1981. Come dichiaro alla fine del testo: («Ho voluto una volta per tutte/ e per sempre/ raccontare di ev/ alla maniera diev…»), questa ballata, composta come le successive con un’insalata russa di quattro lingue: (italiano, francese, tedesco, inglese), deriva dai testi plurilinguistici di Emilio Villa, e attraverso di essa cerco di raccontare l’ammirazione, il divertimento, il senso di libertà e di gioia che lui personalmente e la sua opera, fitta di giochi di parole, mi sapevano dare.Così, le prime due Ev di Evening e di Everest, come le successive, sempre scritte in corsivo, vogliono richiamare l’attenzione sulle sue iniziali: E. V. Questi primi due versi possono essere tradotti così: «È sera e l’Everest inclina alla poesia.» Essendo l’Everest la montagna più alta, la si può leggere come metafora del «poeta più grande» e questo concetto verrebbe rafforzato dalla desinenza inglese «est» che, come in «best» di «good, better, best», indica il superlativo assoluto, trasformandosi allora anche nel gioco di parole: «il più Ev di tutti», «il massimo Ev».«…vers la poetry leaning» dà anche: «inclina verso la poesia» con quell’avverbio francese, moto a luogo «vers», che come l’italiano «verso» è omofono e olografo di «verso» nell’accezione di «riga di scrittura poetica».Proseguendo nella traduzione: «Mangia beve racconta una storia/ dell’orso che spalsh! col culo peloso/ nell’acqua bassa per far schizzar fuori/ la trota/ per far saltar fuori la trota».
Si era alla fine degli anni Sessanta. Adriano Spatola e io incontravamo Emilio e Teresa, la sua compagna di allora, sempre a cena, soprattutto in trattoria, ma a volte anche nelle rispettive case. Emilio era tornato da poco dagli Stati Uniti dove era andato a trovare il figlio, fisico nucleare che lavorava per la NASA a Los Alamos. Gli Stati Uniti gli erano piaciuti moltissimo, si era divertito e amava parlarne. Il figlio l’aveva portato a visitare un Parco Nazionale dove Emilio aveva avuto la fortuna di assistere a una scena che l’aveva entusiasmato, per l’intelligenza e l’astuzia dell’animale, tanto è vero che gliel’ ho sentita raccontare più di una volta: un orso di vedetta su una roccia sopra un torrente, scorgendo una trota o un salmone nella vicina pozza d’acqua poco profonda, sotto di lui, ci saltava dentro (col culo peloso), facendo così schizzar fuori sul terreno la trota che avrebbe poi preso senza dispendio di energie.
«Poi si alza la trota nella zampa/ e mangia e ride ed è poeta/ veramente grande/ così felice e orso così raro e così via./ Questo al Parco Nazionale./ Ma tutta l’America la calzi come un guanto/ Zeus Rabelais/ ti divertiva quel Luna-park…».L’entusiasmo col quale Emilio mimava questa scena, mi indusse a identificarlo con l’orso, ma subito dopo, cercando di spiegare quale sorta di piacere poteva avergli dato quel «Luna-park» degli Stati Uniti, lo definisco Zeus (sempre per associarlo alla grandezza, nonché alla sua traduzione dell’Odissea della quale parlo più avanti nel testo), e Rabelais (per gli eccessi, la sua voracità fisica e mentale per i pasti pantagruelici, i dizionari e tutte le lingue).
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