by Giulia Brutto on Sunday, April 15, 2012 at 3:10pm ·
Alla fine è la rabbia a muovere i miei passi. Nient’altro che rabbia e un pizzico di smarrimento. Quando mi butto giù dal letto – il termine corretto è più che altro rotolo – e annaspo fino al cassetto del bepanthenol, ciabattando al ritmo di un vecchio pensionato, non faccio che ripetermi che no, oggi è diverso, oggi ci rimettiamo in sesto e ci regaliamo una sana rispolverata, e palle ferme, per Dio, palle ferme. Un quarto d’ora più tardi sono lì seduto a sorseggiare il mio thè nero, un thè biologico prodotto in qualche sperduta cooperativa sociale dello Shri-Lanka, carezzando col pensiero l’idea di fiondarmi al supermercato e comprare quella bottiglia di Erotika al cioccolato che già da un po’ di tempo mi fluttua tra i pensieri. Mentre mi arrotolo in silenzio la seconda sigaretta. Mentre fisso i vetri opachi del terrazzo in cucina. Mentre realizzo che questa è proprio una giornata di merda e non è che in fondo abbia tutta ‘sta gran voglia di respirare. Quando me ne andrò, lascerò qui caterve di libri. Libri fotocopiati, libri ammucchiati su scaffali impietosamente curvi sotto il loro peso, libri che ho letto fino all’ultima pagina o che ho aperto e richiuso con la stessa espressione schifata di chi ha ingoiato un moscerino per sbaglio. L'impero dei libri, insomma. Il babbo non sembra molto soddisfatto. Continua a ripetermi che vado lì, in Canada – il Canadà, come lo chiama lui – e per fare cosa? Neanche l’arrampicatore sociale, chiaro. Per starmene lì senza un lavoro, senza una garanzia, senza neanche – quando rimarrò al verde – la possibilità di comprarmi un rotolo di carta igienica e strofinarmici il culo a meno di chiedere qualche spicciolo ai padroni di casa.
E sapete una cosa? In fondo ha ragione. Il fatto è che qui non è che la situazione sia tutta rose e fiori. “E come fai se ti chiamano dalla scuola?”. “Se mi chiamano dalla scuola”, rispondo io, “mollo tutto e torno”. È il mio modo per rabbonirlo. E per ricordarmi che la speranza è sempre l’ultima a morire. A dirla tutta, la mia ha tirato le cuoia da parecchio. Schiattata di brutto e senza preavviso. Di giorno aspetto quasi con ansia quelle quattro ore di lavoro, in cui sono costretto a schiodare le chiappe dalla poltrona e mandare carri attrezzi e officine mobili su e giù per la nazione. È un lavoro strambo, di quelli che un po’ ti mandano per aria il sistema nervoso. E però mi piace. Più vado avanti, più mi rendo conto di quanto sia bello avere un piccolo coltello dalla parte del manico e poterlo rigirare a piacimento nei cervelli difettosi e striminziti degli automobilisti in panne. I colleghi se la ridono per il modo in cui ho comunicato la mia partenza al resto della famiglia. Cominciando da qualche accenno e passando poi a piccole domande strategiche che mi permettessero di tirar fuori le informazioni necessarie, fino alla conferma definitiva. Mi ci sono voluti esattamente ventotto giorni per vuotare il sacco. Lentamente. Con calma e professionalità. Mi sono attenuto al piano, preparando i miei giorno dopo giorno, finché non è rimasto altro che spiattellare gli orari dei voli – e a quel punto è stato un po’ come esporre i passi da seguire per realizzare una buona torta fatta in casa. Niente drammi, niente rotture di coglioni. “Sei un mito”, mi fa una biondina che segue le mie vicende casalinghe da quando le ho parlato per la prima volta dei miei progetti per il Canada. E già, penso. Perché noi ce l’abbiamo duro come il marmo, cara.
Continuo ad ascoltare la stessa canzone, un brano di Beirut dal titolo Postcards from Italy, e intanto guardo il cielo grigio, pensante quanto una trapunta invernale, asciugandomi col torso della mano l’ennesima gocciolina di umidità in bilico sulla punta del naso. È il mio giorno libero e oggi, mi dico, non è proprio giornata. Ieri notte, intorno alle 3.30 del mattino, dopo aver appurato la perfetta inutilità dei miei sforzi per vincere l’insonnia, mi sollevo dal letto e vado in cucina a fumare. Mia sorella mi trova così, sfatto come un coniglio a un pranzo pasquale, raggomitolato sulla poltrona e avvolto in una nuvola di Camel. Ho un occhio chiuso e l’altro aperto, la voce impastata mentre cerco di spiegare che, a dispetto delle apparenze, è da tre ore che agonizzo su quel cazzo di lettino e non riesco a dormire, Dio solo sa il perché. Da qualche parte, penso, nel libro che sto leggendo c’è una frase, qualcosa che un innamorato al colmo di un evidente aneurisma cerebrale, mormora alla compagna eroinomane. “Ti renderò la persona più felice del mondo”. Io ci penso su. Poi abbandono la sigaretta sull’orlo del posacenere. Prendo una penna, cerchio la frase incriminata e al lato del foglio, collegata da una freccetta e due o tre stelline di contorno, scrivo la mia risposta: La più grande bugia dell’universo. Non so perché. So solo che, quando riprendo la sigaretta e torno a fissare la pagina, mi sembra che questa abbia riacquistato il senso perduto. Già. Tutta questione di dettagli.
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