* Sono le prime esperienze a contare e quella con Elio Pagliarani (la poesia scritta da lui, la voce raschiante, il modo che aveva di lasciar parlare gli altri e di interromperli con scatti di impazienza che di brutale avevano però solo il suono, come film giapponesi in versione orginale) fu importante anche se non saprei dire esattamente per cosa, perché fu seminale come in effetti fu, a cosa contribuì, forse a nient’ altro che a lasciar essere liberamente ciascuno di quelli che lo leggevano, lo ascoltavano e gli parlavano – quindi l’esatto contrario di una formazione o magari la sua versione più raffinata. È raro, ho scoperto in seguito, che il gusto di influenzare il prossimo si eserciti in una maniera tanto riservata. Forse era proprio la sua scontrosità a renderlo delicatamente sensibile e pudico verso l’essenziale del discorso (basti leggere gli Esercizi platonici, cavati fuori con straordinaria leggerezza in poche ruvide mosse) e insofferente o indifferente verso le moine verbali che costituiscono il novanta per cento di ciò che, tra letterati, si usa definire «magistero». [Edoardo Albinati]
Avevo una ventina d’anni quando vidi Pagliarani per la prima volta, intorno al ’77. Frequentavo il laboratorio di poesia che teneva in Via Pompeo Magno, a Roma, nella parte alberata vicina al Lungotevere. Il primo impatto fu con lo sguardo: esso sembrava schivare ogni visione diretta; in realtà era come se sorgesse da un luogo affine, ma esiliato. Le parole che potei scambiare – sia allora che dopo – non furono molte. Non tanto era scontroso; era come se dall’impatto con un altro essere dovesse scaturire ogni volta qualcosa di essenziale, da cui fosse bandito lo scialo della conversazione. (..) Era scrittura ogni carica di pipa, ogni intonazione, senza compiacimento né compiacenza. (..) [Luca Archibugi]
Carattere comune di tutti i cinque Novissimi è stato quello di forzare oltre ogni limite le regole del «poetichese». (..) preferiva procedere salmodiando i suoi versi nella libera dimensione del suono, come avviene da sempre nel teatro, sicuro della necessità di dover saltar fuori dalla Galassia Gutenberg.[Renato Barilli]
(..) Pensare a Elio come a un uomo il più provvisto d’una religione laica, e solo laica. Pagliarani era fedele alle sue radici romagnole, il suo senso di giustizia era feroce e terreno. A che cosa erano dovute le sue pazze ire se non all’idea che ogni acquiescenza, ogni rinuncia, ogni mortificazione sarebbero risultate (a se stessi prima di tutti) inique, indegne, suscettibili d’altra ira, d’altro furore? [Franco0 Cordelli]
(..) Prima Elio, a bassa voce, aveva avuto parole colme d’ammirazione per Sandro Penna e io sfoggiai un libretto fresco di stampa, il suo carteggio con Montale, dicendo qualcosa sulla bellezza di quest’amicizia fra poeti. Una cosa molto retorica, suppongo; Elio s’incazzò però non per il tono, ma per l’ignoranza. Ma come amici! Ma se Montale gli ha fatto le scarpe tutta la vita! Per la prima volta, stupefatto e terrorizzato, assistevo alla sua collera omerica;(..) [Andrea Cortellessa]
(..) La sua vera vittoria Pagliarani la consegue con la messa in scena della parola, ovvero con la teatralizzazione della poesia. La «riduzione dell’io»,negli altri Novissimi, non implica, di solito, una totale fuoruscita dal soggetto; spesso, anzi, il poeta procede in senso contrario, con un introversione che lo porta a incontrare (ed è incontro fertilissimo) quello che impropriamente si è soliti chiamare il linguaggio dell’inconscio. Oppure agisce sostituendo alla parola dell’io una verbalità fatta di reperti, di inclusioni. L’esternità di Pagliarani è fatta invece dell’invenzione di personaggi che non sono la proiezione dell’autore e che risultano
caratterizzati sia socialmente sia psicologicamente. Poiché ciascuno di essi parla un suo linguaggio,si ha, nei due poemetti, La ragazza Carla e La ballata di Rudi, un vero teatro di parole, lo spettacolo verbale di certi pezzi della società italiana alla fine del Novecento. (..) [Fausto Curi]
* Elio Pagliarani è per me inseparabile dal Laboratorio di poesia che creò alla fine degli anni Settanta a Roma, e è inseparabile dalla mia giovinezza. Perché eravamo tutti con lui, a casa sua. In quella casa sul pendio del Pincio, nel centro di Roma e che sembrava in campagna. Si entrava in un portone e poi diverticoli di vicoli, scalette, boschetti. Credo che Elio sia stato il primo in Italia a fare un Laboratorio di poesia, e per la portata storica che ha avuto, rimane credo l’unico. In quel laboratorio ci incontrammo tutti: era una generazione intera di scrittori in un momento di passaggio importante, da una fase storica di lacerazioni, di ideologia, a una visione nuova di ricomposizione, di pietas. Pur appartenendo al Gruppo 63, a una formazione cioè fortemente ideologica, Elio fu con noi soprattutto un poeta, un umanista come quelli di un tempo, una persona dotata di un’incredibile capacità di ascolto. Anche se parlava poco (aborriva la lezione) avrebbe comunque voluto dirci delle cose, farci fare ad esempio dei «collage» alla maniera dell’avanguardia, ma sapeva bene in cuor suo che noi non li avremmo mai fatti. Il cuore del Laboratorio era la lettura dei nostri testi, seguita dal suo formidabile giudizio, e da una libera discussione che egli pilotava in modo magistrale. Tra il testo e il giudizio c’era una lunga pausa, un silenzio terribile e panico, Elio teneva gli occhi chiusi e aspirava la sua pipa, poi emetteva un verdetto che, se anche severo, era sempre geniale, e ci illuminava tutti. [Claudio Damiani]
Pagliarani soffriva a considerare compiuto un suo libro, a dare ad esso forma definitiva; se fosse stato per lui i suoi testi poetici sarebbero rimasti affidati alla pastosa sonorità della sua voce roca o all’effimera esistenza dei fogli volanti, che attendevano e pretendevano ulteriori cure e attenzioni, che consentivano ripensamenti e giunte, soprattutto giunte e tagli, perché in realtà i versi per lo più resistevano identici, come fusi nella loro corporea esistenza e quindi intoccabili. Era l’opera ad apparirgli irrimediabilmente incompiuta, bisognosa di altro, impari al compito che le toccava; era il racconto che non era mai abbastanza perspicuo.(..) [Cesare De Michelis]
(..) la sua illimitata passione «romagnola» per il presente e per la concretezza del mondo, la sua disposizione all’ascolto delle cose, delle persone, dei linguaggi, e lo ha portato a sperimentare, insieme da dentro e da fuori,(..) [Giulio Ferroni]
Una poesia vive dell’innesto di organi altrui, fra una crisi di rigetto e l’abbassamento delle difese del sistema immunitario. L’autore letteralmente ne muore. Se Pagliarani è un poeta, e lo è in modo eccelso, è perché si è lasciato abitare.
Quella che ci mancherà di lui, allora, è in verità la voce. Non il tono, la grana, gli accenti o quello che volete, che naturalmente sono stati infinite volte registrati, a partire dalla pagina stessa, che di suo è un grammofono. La voce ci mancherà nel suo sorgere, quando a ogni esecuzione replicava lo stesso dramma dell’accoglienza. A quanti uomini infami, convocati uno per volta, e poi persino in coro (già: «siamo in troppi a farmi schifo»), dava asilo Pagliarani. Ricordiamo tutti quanto in un primo momento quella voce gorgogliasse, quasi a pelo di palude stigea, come se insomma dovesse emergere da quella tristitia profonda dove si è in tanti, e tutti nella stessa melma. Poi, d’improvviso, diventava il rimbombo di una caverna, o l’eco di un teatro.
Difficile, a sentirla risuonare, non comprendere allora quale fosse il vero scopo della sua poesia, che solo i sordi poterono sentire residuo di un correlativo oggettivo ancora di stampo
eliotiano. Pagliarani nei suoi versi non dava la parola a nessuno, né a una persona poundiana né all’esatto negativo del principe Amleto. Gli uomini infami non premevano i suoi versi con il loro balbettio per prendere la parola. Nessuno ha bisogno di parole, se non per farne un romanzetto, sia pure quello della propria vita. Quegli uomini, come tutti, volevano una voce.[Gabriele Frasca]
Pagliarani era un uomo e un poeta straordinario ed è proprio degli uomini e poeti straordinari averne una consapevolezza contenuta e cioè sapere di essere dapprima e per prima un uomo ordinario (non diverso da quello che gli camminava insieme per la strada).[Angelo Guglielmi]
(..) C’è una corrispondenza fra politica e poetica in Pagliarani. Come sul piano politico Pagliarani mescola istanze moralistiche, populistiche, riformatrici, interpretazione classista della storia e atteggiamenti libertari e anarchici, così su quello letterario l’accettazione di una «funzione sociale», consistente nel compito di «mantenere in efficienza, per tutti, il linguaggio», si accompagna all’esigenza di non accontentarsi della «negazione» radicale sul piano del linguaggio ma di puntare a una «opposizione» o «contrapposizione determinata», verificata sul reale, e capace di produrre «nuovi significati».[Romano Luperini]
Era un maestro per forza, per la forza della trasmissione contagiosa del suo modo di fare poesia e di esprimerla, o forse meglio di esploderla (mi è capitato di dire che le sue citazioni diventano «concitazioni»). Un maestro di un moderno uso della pulsione ritmica, mai banalmente musicale, ma piena di décalages, doppi pedali, inserimenti, fratture che sottolineava lui stesso nella mimica della lettura. Un maestro, poi, di etica in poesia, per cui ogni immagine accattivante dev’essere messa in contrasto con le dure realtà, decisivo esempio quel passaggio della Ragazza Carla dove dice «è nostro ed è morale il cielo», proprio perché neppure il cielo ha da consentire evasioni.(..)[Francesco Muzzioli]
«Quanto di morte ci circonda e quanto tocca mutarne in vita per esistere è diamante su vetro». I versi che aprono il recitativo finale della Ragazza Carla, grande esempio di oratoria epica innestato sulla complessa struttura della poesia-racconto, mi hanno accompagnato spesso, nelle più diverse situazioni, dopo averli ascoltati dalla voce di Elio. Mi sono sempre sembrati una testimonianza perentoria di un’asprezza dell’esistenza accolta in una società consapevole, forte della propria autocoscienza. Con un ritmo che Elio scandiva quando, leggendo i propri versi, roteava la mano ad accompagnare l’onda sonora: era, quel gesto, una guida precisa all’ascolto di una poesia che diveniva esempio performativo della sperimentazione, quel compendio di stili, di codici, di linguaggi. Con quel senso del ritmo e della parola, Elio avrebbe articolato un suo peculiare «realismo», secondo prospettive sempre cruciali, scandite dalle irrinunciabili richieste di epoche incalzanti. Gli anni Cinquanta, o il realismo del vissuto; i Sessanta-Settanta e il realismo delle scritture (le voci, i linguaggi citati e montati nella narrazione in versi); gli Ottanta e i Novanta, o il realismo del ritmo e delle parole (le modulazioni jazzistiche che accompagnano figure chiave di situazioni esistenziali). Grande poesia e coscienza del proprio ruolo in una contemporaneità
sgradita: per questo Pagliarani fu sempre un grande protagonista di una stagione neoavanguardistica, da cui sembra ora di moda volerlo distaccare. Quando non si capisce che
sperimentare vuole dire (voleva dire per Elio) liberare il linguaggio, lottare con l’angelo.[Giorgio Patrizi]
All’università ho registrato La ragazza Carla in un’audiocassetta, per poterla ascoltare con le cuffiette. Ascoltavo il poemetto di Pagliarani e riuscivo a sopportare la mia voce che lo leggeva, che lo infettava. Altri poeti invece non sopportavo che fossero infettati dalla mia voce, avrei voluto avere a disposizione una voce impersonale, assoluta, per registrare le loro poesie, invece la poesia di Pagliarani no, mi sembrava che bisognasse sentire che c’era qualcuno che la leggeva, con un’inflessione e un carattere, e allora riuscivo a sopportare persino la mia voce.[Tiziano Scarpa]
(..) ricordare, con gli ex giovani poeti, quei pomeriggi a casa di Elio, vera dimora da poeta in via Margutta, e poi quelle mie visite da «esterno» al laboratorio di poesia, e anche l’invito i quella sera a teatro, quando Elio faceva il critico per «Paese Sera», leggendo in seguito nella recensione: «Al giovane poeta Roberto, seduto accanto a me, è piaciuto lo spettacolo…».[Roberto Varese]
(..) al primo convegno del gruppo 63, in una bettola fuori Palermo, con pane vino e olive amare una sfida poetica fra Elio e il vecchio Ignazio Buttitta: tutti e due improvvisano con voci tonanti e gesti furiosi, grande poesia grande teatro durato tutta la notte. [Carla Vasio]
E ogni volta che diceva ad alta voce le sue poesie, qualsiasi ne fosse il tema, esse divenivano politiche, politiche nel senso più nobile, politiche perché ad alta voce, politiche perché quella voce roca le donava, con generosità immensa, a tutta la comunità.[Lello Voce]
Alla fine degli anni ’80 Pagliarani lavorò a un videodisco di poesia con una startup di ricerca universitaria tra Genova ed Arcavacata. Il progetto di un Laboratorio di poesia non era nuovo, anzi era una pratica matura che negli anni solo Plinio De Martiis (in audio) e la rivista «Videor» (in video) avevano seguito registrandone gli appuntamenti. Elio raccontava di aver pensato spesso di imitare un eccentrico concittadino tanto fantasioso quanto intraprendente che nell’arduo dopoguerra delle campagne s’era inventato una fantomatica Scuola Popolare Itinerante di Agricoltura per sbarcare il lunario. Ora che il laboratorio, ed Elio stesso, «sono diffusi come pioggia sulla terra, divisi come un’ultima ricchezza, sono radice ormai...», per dirla col Poeta, possiamo pensare agli aggettivi, popolare e itinerante, che sono stati la marca del suo lavoro didattico: e che può essere anche nostra, per continuare. Magari col digitale che ora è lanciato oltre l’ostacolo. Sperimentare era così naturale per Elio Pagliarani che non è facile però immaginare come si possa riprendere il pathos dei suoi incontri in una scena distratta e dispersa che per fare ascolto avrebbe tanto bisogno invece del suo esserci. Un insopportabile stato di distrazione insidia la poesia, ma non solo. Fuor di metafora, Elio Pagliarani teneva insieme e rilanciava, individuava, i nodi che ogni nuovo poeta
proponeva al suo ascolto. Faceva rete suo malgrado, per così dire, e di ciò era pienamente consapevole: pensiamo alla grande antologia virtuale di testi che il suo magistero dell’ascolto
pubblico ha messo insieme in questi anni. Ma questo è un passaggio troppo difficile da raccogliere anche per il possente digitale se non c’è più Pagliarani.[Orazio Converso]
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